Cari frequentatori di questo spazio di intemperanze. Prima di congedarmi da voi per una decina di giorni, causa lontananaza da internet, vi raccomando di leggere il documento qui sotto, ennesima manifestazione del dissenso ebraico che, dopo Gaza, ha conosciuto una crescita e una diffusione senza precedenti. Questa rottura del consenso, o della tolleranza, con cui la maggioranza vociferante della diaspora ebraica aveva sostenuto ogni nefandezza dello Stato razzista e colonialista, è uno degli elementi che segnano la crisi di Israele e quindi il suo declino.
Si può concordare o meno con ogni concetto espresso in questo nobile documento, ma la fine dell'impunità israeliana e il riconoscimento della sua feroce pulizia etnica rappresentano una volta storica, geopolitica, geostrategica e culturale e aprono la strada verso l'unica soluzione realistica della questione mediorientale: lo Stato unico democratico, laico e binazionale e, in prospettiva, l'unità araba antimperialista storicamente determinata.
Sono grato a questi amici ebrei che anche, meglio di me, notoriamente al di sotto di ogni sospetto, rispondono a quei propagandisti sparaballe cari al Mossad che da qualche tempo inondano il mio blog costringendomi a rifiutarne la pubblicazione. Pubblico invece volentieri le parole degli ebrei onesti, anche per coloro che dall'antisionismo scadono nell'antiebraismo.
A presto,
Fulvio
Il documento di costituzione della Rete Internazionale Ebraica Antisionista
Siamo una rete internazionale di Ebrei che si dedica senza riserve alle lotte di emancipazione degli esseri umani, di cui la liberazione del popolo Palestinese e della sua terra è una parte indispensabile. Il nostro obiettivo è la distruzione dell’ ’apartheid israeliano, il ritorno dei rifugiati Palestinesi e la fine della colonizzazione israeliana della Palestina storica.
Dalla Polonia all’Iraq, dall’Argentina al Sud Africa, da Brooklyn al Mississippi, molti Ebrei hanno fatto propria questa richiesta di giustizia e il desiderio di un mondo più giusto, unendosi ad altri in lotte collettive. Gli Ebrei hanno partecipato in maniera determinante alla lotta dei lavoratori durante il periodo della depressione, al movimento per i diritti civili, alla lotta contro l’apartheid in Sud Africa, alla lotta contro il fascismo in Europa e a molti altri movimenti di cambiamento sociale e politico. La storica e costante pulizia etnica portata avanti dallo Stato di Israele nei confronti del popolo Palestinese per cacciarlo dalle proprie terre contraddice e tradisce questa lunga storia della partecipazione ebraica alle varie lotte di liberazione.
Il Sionismo – la moderna ideologia fondante che si è incarnata nello Stato di Israele – affonda le sue radici nel periodo del colonialismo europeo e si è diffuso immediatamente dopo il genocidio nazista. Il Sionismo si è nutrito dei più violenti ed oppressivi avvenimenti del diciannovesimo secolo, a spese dei molti sforzi e dell’impegno degli Ebrei per la liberazione. Per rivendicare questi sforzi, e un posto nei vibranti movimenti popolari del nostro tempo, il Sionismo, in tutte le sue forme, deve essere fermato.
Questo è cruciale, soprattutto per via dell’impatto del Sionismo sul popolo Palestinese e sulla regione circostante. Il Sionismo disonora anche la persecuzione e il genocidio degli Ebrei d’Europa utilizzando la loro memoria per giustificare e perpetuare il razzismo e il colonialismo europei. È responsabile del massiccio allontanamento e alienazione degli Ebrei Mizrahi (Ebrei di discendenza africana e asiatica) dalle loro diverse origini, lingue, tradizioni e culture. Gli Ebrei Mizrahi sono presenti in questa regione da più di duemila anni. Quando il Sionismo ha preso piede, le storie di questi Ebrei sono state sviate dal loro corso e messe al servizio della segregazione degli Ebrei imposta dallo Stato di Israele.
In quanto tale, il Sionismo ci coinvolge nell’oppressione del popolo Palestinese e nello svilimento delle nostre stesse eredità, lotte per la giustizia e alleanze con gli esseri umani nostri fratelli.
Ci impegniamo a: Opporci al Sionismo e allo Stato di Israele
Il Sionismo è razzista. Si prefigge il dominio politico, giuridico ed economico degli Ebrei e dei popoli e delle culture europei sui popoli e le culture indigene. Il Sionismo non è solo razzista, è anche antisemita. Appoggia l’immaginario europeo sessista e antisemita dell’effeminato e debole “Ebreo della diaspora” e contrappone ad essa un “nuovo Ebreo” violento e militarista, perpetratore piuttosto che vittima di violenza razziale.
Il Sionismo quindi cerca di rendere bianchi gli Ebrei con l’adozione del razzismo bianco nei confronti del popolo Palestinese. Nonostante il bisogno di Israele di integrare i Mizrahi per poter mantenere una maggioranza ebraica, questo razzismo si traduce anche nell’emarginazione e nello sfruttamento economico della popolazione Mizrahi socialmente indigente. Questa violenza razziale comprende anche lo sfruttamento dei lavoratori immigrati.
I Sionisti propagano il mito che Israele è una democrazia. In realtà, Israele ha istituito e sostiene politiche e prassi interne che discriminano gli Ebrei di origine Mizrahi ed esclude e ghettizza il popolo Palestinese. Inoltre Israele, sostenuta dagli Stati Uniti, mina alla base qualsiasi movimento arabo che lotta per la sua liberazione e un cambiamento a livello sociale.
Il Sionismo perpetua il senso di eccezionalità degli Ebrei. Per difendere i propri crimini, il Sionismo racconta una versione della storia ebraica totalmente separata dalla storia e dalle esperienze di altri popoli. Diffonde l’idea che l’olocausto nazista sia un’eccezione nella storia dell’umanità – nonostante sia uno dei tanti olocausti, da quelli dei nativi del Nord e del Sud America a quelli in Armenia e Rwanda. Separa gli Ebrei dalle vittime e dai sopravvissuti di altri genocidi invece di accomunarci ad essi.
Attraverso una condivisa islamofobia e desiderio di controllo del Medio Oriente e dell’Asia occidentale, Israele fa fronte comune con i fondamentalisti cristiani ed altri che chiedono la distruzione degli Ebrei. Insieme chiedono la persecuzione dei Musulmani. Questa promozione comune dell’Islamofobia serve a demonizzare la resistenza al dominio economico e militare dell’Occidente. Porta avanti una lunga storia di collusione sionista con regimi repressivi e violenti, dalla Germania nazista al Sud Africa dell’apartheid alle dittature reazionarie in tutta l’America Latina.
Il Sionismo afferma che la sicurezza degli Ebrei dipende da uno stato ebraico militarizzato. Ma Israele non garantisce la sicurezza degli Ebrei. La sua violenza porta instabilità e paura per coloro che rientrano nella sua sfera di influenza e mette a rischio la sicurezza di tutti i popoli, incluso quello ebraico, ben oltre i suoi confini. Il Sionismo ha contribuito volutamente a creare le condizioni che hanno portato alla violenza contro gli Ebrei nelle nazioni arabe. L’odio nei confronti degli Ebrei che vivono in Israele e altrove, provocato dalla violenza e dal dominio militare di Israele, viene usato per giustificare ulteriore violenza da parte sionista.
Ci impegniamo a: Respingere il retaggio coloniale e la continua espansione coloniale
Il momento in cui il movimento sionista ha deciso di fondare uno Stato Ebraico in Palestina, è diventato un movimento di conquista. Alla stregua della conquista imperiale e delle ideologie genocide nelle Americhe e in Africa, il Sionismo si basa sulla segregazione dei popoli e sulla confisca della terra che produce pulizia etnica e dipende da un’implacabile violenza militare.
I Sionisti hanno lavorato a stretto contatto con l’amministrazione coloniale Britannica contro le popolazioni autoctone della regione e le loro legittime speranze di libertà e autodeterminazione. L’immaginario Sionista di una Palestina “vuota” e desolata ha giustificato la distruzione della vita dei Palestinesi così come lo stesso tipo di razzismo ha giustificato lo sterminio dei Nativi Americani, la tratta atlantica degli schiavi e molte altre atrocità.
Dagli insediamenti in continua espansione al Muro dell’Apartheid, l’impegno di Israele al dominio coloniale lascia il suo segno danneggiando l’ambiente e distruggendo la morfologia fisica della Palestina. Il fallimento delle politiche per porre fine alla resistenza Palestinese spinge Israele verso una violenza sempre crescente e politiche che, se portate al loro estremo, terminano nel genocidio. A Gaza, lo stato israeliano rifiuta l’accesso a cibo, acqua, elettricità, aiuti umanitari e forniture mediche come arma per minare le fondamenta della vita umana.
Israele, un tempo complice dell’assalto britannico e francese all’unità e all’indipendenza arabe, è ora un socio subalterno nella strategia delle forze alleate statunitensi per il controllo militare, economico e politico del mondo, in particolare nel dominio della strategica regione del Medio
Oriente e del Sud Ovest asiatico. Il pericolo di una guerra nucleare causata da un attacco israelo-statunitense dell’Iran ci ricorda che Israele è una bomba atomica che deve essere urgentemente smantellata per salvare le vite di tutte le sue vittime attuali e potenziali.
Ci impegniamo a: Contrastare le organizzazioni sioniste
Oltre ad aver ideato la creazione di Israele, il Sionismo ne ha determinato le politiche internazionali di dominio militare e antagonismo verso i suoi vicini e ha istituito una complessa rete globale di organizzazioni, gruppi di pressione politica, società di pubbliche relazioni, circoli nelle università e nelle scuole per sostenere e promuovere le idee sioniste nelle comunità ebraiche e nella società in generale.
Miliardi di dollari USA vengono versati annualmente ad Israele per sostenere l’occupazione e il sofisticato e brutale esercito israeliano. La macchina da guerra che finanziano è una dei leader nell’industria globale delle armi, che prosciuga risorse indispensabili ad un mondo che ha un disperato bisogno di acqua, cibo, cure mediche, alloggi ed istruzione. Nel frattempo, l’Europa, il Canada e le Nazioni Unite sostengono l’infrastruttura dell’occupazione mascherandola da aiuti umanitari al popolo Palestinese. Insieme, gli USA e i loro alleati collaborano all’allargamento del dominio della regione e alla eliminazione dei movimenti popolari.
Una rete internazionale di istituzioni e organizzazioni sioniste sostiene l’esercito israeliano e gli insediamenti ebraici militanti con finanziamenti diretti. Questa rete fornisce anche il sostegno politico necessario a legittimare e promuovere politiche e invii di aiuti. Nei singoli paesi, questa rete censura le critiche a Israele e prende di mira singoli individui e organizzazioni tramite schedature, violenza, reclusioni, deportazioni, disoccupazione e altri ricatti economici.
La rete sionista favorisce la diffusione dell’islamofobia. Suona i suoi tamburi di guerra all’estero e spinge per una legislazione repressiva in casa. Negli USA e in Canada, le organizzazioni sioniste hanno sostenuto l’approvazione della legislazione “antiterrorismo” che prevede che chi si organizza per promuovere il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele e sostenere organizzazioni palestinesi, iraniane, irachene, libanesi e musulmane debba essere messo sotto processo in quanto sostenitore del terrorismo e colpevole di tradimento. Sia in Europa che negli USA, fantomatiche organizzazioni “ebraiche” sono attualmente in prima linea nel chiedere una guerra contro l‘Iran.
Stanno comparendo crepe sia nelle fondamenta del sionismo che nello stesso dominio mondiale statunitense. Nella regione, continua una straordinaria resistenza della Palestina e del sud del Libano all’aggressione e occupazione israeliana e statunitense nonostante le risorse limitate e i molti tradimenti. Nel mondo, il movimento di solidarietà con il popolo Palestinese e contro la politica statunitense e israeliana sta acquistando slancio. In Israele, questo slancio si può vedere nel crescente dissenso che permette di reclamare due eredità degli anni ’60: Matzpen, una organizzazione israelo-palestinese ed ebraica antisionista, e il Partito Mizrahi delle Pantere Nere. In Israele c’è anche un crescente rifiuto dei giovani ad accettare la leva obbligatoria nell’esercito.
In seno ai governi e all’opinione pubblica negli USA e in Europa, i costi del sostegno incondizionato a Israele vengono sempre più messi in discussione. Israele e gli USA cercano nel sud globale nuovi alleati che si uniscano alle loro conquiste economiche e militari. Il crescente rapporto tra Israele e India è un tipico esempio di questo. Condividendo l’interesse al controllo politico e al guadagno dei pochi a spese dei molti, l’élite Indiana e di altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia occidentale collude con i piani economici e militari dell’occidente nella regione.
La propaganda della Guerra Globale al Terrore da parte dell’Occidente risuona dell'islamofobia che è richiesta e promossa dall’élite indiana e ha fornito la scusa per una dura repressione del dissenso da parte di vari regimi del Medio Oriente e del sud-ovest asiatico. Nonostante questo, stanno nascendo movimenti popolari che hanno alle spalle una ricca storia di lotte anticoloniali che sfidano e finiranno per sconfiggere questa alleanza.
Insieme ai nostri alleati, vogliamo contribuire ad allargare quelle crepe, finché il muro non cada e Israele non resti isolata come era isolato il Sud Africa dell’apartheid. Ci impegniamo a portare avanti la battaglia contro quelle organizzazioni che pretendono di parlare per noi, e a sconfiggerle.
Ci impegniamo a: Dare la nostra solidarietà e a lavorare per la giustizia
Mettiamo i nostri cuori, menti e impegno politico a sostegno del variegato e dinamico movimento di resistenza del popolo Palestinese e della lotta alle ingiustizie di cui le nazioni in cui viviamo sono responsabili.
Sosteniamo senza riserve il Diritto al Ritorno dei Palestinesi. Chiediamo l’abrogazione della razzista legge israeliana sul ritorno che privilegia i diritti di qualsiasi persona che venga ritenuta Ebrea dallo Stato di Israele a stabilirsi in Palestina escludendo così i Palestinesi e trasformandoli in rifugiati.
Rispondiamo con tutto il cuore all’appello dei Palestinesi a sostenere il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele.
Sosteniamo la richiesta di rilascio dei prigionieri politici palestinesi e di porre fine alla reclusione di leader politici palestinesi, donne, bambini e uomini, come metodo di controllo e terrore.
Non sta a noi decidere quale strada debba prendere il popolo Palestinese nella costruzione del proprio futuro. Non pretendiamo di sostituire la nostra voce alla sua. Le nostre strategie e azioni deriveranno dal nostro attivo contatto con coloro che sono impegnati nelle varie lotte di liberazione in Palestina e nella regione circostante. Sosterremo la loro lotta per la sopravvivenza, per difendere le proprie posizioni e per far progredire il loro movimento come meglio possono, secondo le loro modalità.
Siamo a fianco dei vibranti movimenti di resistenza popolari del nostro tempo che difendono e hanno a cuore le vite di qualsiasi persona e dello stesso pianeta. Siamo a fianco dei movimenti guidati da coloro che più risentono delle conquiste, occupazioni, razzismo imperiali e del controllo e sfruttamento globale di popoli e risorse. Difendiamo la protezione del mondo della natura. Difendiamo i diritti delle popolazioni locali alla loro terra e sovranità. Difendiamo i diritti dei migranti e dei rifugiati a varcare liberamente e in tutta sicurezza i vari confini. Difendiamo i diritti dei lavoratori – inclusi i lavoratori immigrati fatti arrivare in Israele per sostituire sia la mano d’opera palestinese che quella Mizrahi – alla giustizia economica e all’autodeterminazione. Difendiamo i diritti di eguaglianza razziale e di identità culturale. Difendiamo i diritti di donne e bambini e di tutti i gruppi discriminati ad essere liberi dal giogo. E ci battiamo per il diritto universale di avere acqua, cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria e libertà dalla violenza -- le uniche basi sulle quali la società umana può sopravvivere e prosperare.
Ci impegniamo a sostenere la giustizia in modo che le ferite si possano iniziare a cicatrizzare. C’è molto da sanare: le ferite inflitte dall’imposizione e dalla gestione del regime coloniale in Palestina e nella regione confinante; i traumi dell’oppressione europea degli Ebrei sfruttata dal progetto sionista; le paure e le privazioni sofferte in anni di spargimenti di sangue; le manipolazioni della
cultura e delle risorse utilizzate per sfruttare gli Ebrei Mizrahi e separarli dai Palestinesi; e i continui massacri, stupri e spoliazioni del popolo Palestinese.
La giustizia che vogliamo ottenere deve essere costruita da coloro che in tutta la Palestina, incluso Israele, e i rifugiati Palestinesi, la cui lotta per l’autodeterminazione può portare eguaglianza e libertà a quanti ci vivono e nelle terre circostanti.
Vi chiediamo di unirvi a noi.
Questi obiettivi richiedono la costruzione di un compatto movimento ebraico internazionale che sfidi il Sionismo e le sue pretese di parlare a nome di tutti gli Ebrei. Di fronte ad un avversario internazionale non basta lavorare a livello locale o nazionale. Dobbiamo trovare modi di lavorare insieme scavalcando confini, distanze, settori e lingue. C’è spazio per molte iniziative e organizzazioni, già esistenti e future, che lavorino in maniera indipendente e congiunta, collaborando e appoggiandosi l’un l’altra.
Siete contro il razzismo in tutte le sue forme? Allora vi chiediamo di unirvi a noi per mettere fine all’apartheid israeliano.
Riconoscete la sovranità e i diritti sul territorio delle popolazioni locali? Allora vi chiediamo di unirvi a noi per difendere la sovranità e i diritti sul territorio dei Palestinesi.
Ritenete che tutte le nostre vite dipendano dalla sostenibilità economica e ambientale? Siete furiosi per il furto e la distruzione delle risorse mondiali? Allora vi chiediamo di unirvi a noi per fermare la distruzione dell’agricoltura e della terra palestinese da parte di Israele, il furto di terra e acqua e la distruzione di villaggi e coltivazioni.
Auspicate la fine delle interminabili guerre per il petrolio e il dominio militare degli USA e dei loro alleati? Volete porre fine alle culture militarizzate, all’arruolamento dei nostri giovani e al saccheggio delle risorse che finanziano eserciti invece delle necessità della vita? Allora vi chiediamo di unirvi a noi per smantellare un fattore critico della macchina da guerra globale.
Vi volete dissociare dalla pulizia etnica perpetrata da Israele in Palestina e dalla distruzione di storia, cultura e autogoverno? Ritenete che non c’è pace senza giustizia? Vi sentite furiosi e amareggiati per il fatto che l’olocausto contro gli Ebrei venga usato per perpetrare altre atrocità? Allora vi chiediamo di unirvi a noi per porre fine al colonialismo sionista.
Per far sì che le persone di questo pianeta possano vivere in un mondo sicuro, giusto e in pace, bisogna mettere fine al progetto coloniale israeliano. Ci assumiamo con gioia questo dovere collettivo di minare un sistema di conquista e saccheggio che tormenta il nostro mondo da troppo tempo.
http://www.ijsn.net/atranslation/236/
sabato 28 febbraio 2009
venerdì 20 febbraio 2009
ELEZIONI ISRAELIANE: CARTINA DI TORNASOLE
Inserisco nel blog un commento puntuale alle elezioni israeliane del 10 febbraio.
Lo inidirizzo in particolare all'anonimo che ha bersagliato il mio post "Battaglioni della morte" di considerazioni sioniste, un po' ignare della dura realtà dei fatti. E' assolutamente certo che niente di tutto questo lo distoglierà dalla sua opera di propaganda, ma potrà servire a coloro che dalle sue affermazioni si siano lasciati confondere un po'.
Da Haaretz, di seguito troverete un'analisi dettagliata dei risultati
elettorali di tutti i partiti, raccolti in gruppi in base alle loro
posizioni nei confronti delle leggi internazionali e del rispetto dei più
basilari diritti umani. Perché crediamo che solamente questi criteri
universali dovrebbero essere utilizzati, in Israele come nel resto del
mondo, per stabilire chi si possa definire di 'destra', di 'sinistra', di
'estrema destra' ecc. Le modalità usate comunemente in Israele per definire
la "sinistra", la "destra" e il "centro" e il loro utilizzo per descrivere
rispettivamente Labor, Likud e Kadima, sono totalmente inesatte e
volutamente fuorvianti dal momento che non si basano su alcun criterio
oggettivo per definire cosa si intenda per "destra" e per "sinistra".
Purtroppo, però, queste etichette tipicamente israeliane senza alcun vero
significato vengono ancora scimmiottiate, parola per parola, dai cronisti,
compresi quelli più progressisti, senza che venga mai fatta alcuna
riflessione sulla loro esattezza o pertinenza.
Su qualunque parametro oggettivo si scelga di basarsi, i risultati
elettorali israeliani non possono che portare a mostrare le seguenti
categorie:
Estrema Destra: (partiti che adottano apertamente piattaforme politiche
razziste o fasciste basate sull'espulsione forzata o sulla pulizia etnica
dei cittadini palestinesi in Israele, in base alle più svariate condizioni
che dipendono dal partito specifico in questione; che giustificano e/o
commettono crimini di guerra e gravi violazioni delle leggi internazionali;
che non riconoscono le risoluzioni ONU e le leggi internazionali come LE
basi per il raggiungimento di una giusta pace; che non riconoscono i tre
principali diritti sanciti per i Palestinesi dalle leggi internazionali: (1)
diritto alla fine dell'occupazione e al ritiro degli israeliani ai confini
stabiliti nel 1967, come da UNSC Res. 242, ivi compreso il ritiro da
Gerusalemme Est occupata; (2) diritto riconosciuto ai profughi dall'ONU ad
un risarcimento e a poter ritornare alle proprie abitazioni originarie; (3)
diritto di completa eguaglianza all'interno di Israele e fine del razzismo
istituzionale esercitato nei confronti di tutti i cittadini "non ebrei"):
Yisrael Beitenu: 15 seggi della Knesset (Parlamento)
National Union: 4
Shas: 11
Jewish Home: 3
Likud: 27
Kadima: 28
------------ --------- ------
TOTALE (Estrema Destra): 88 seggi (73% del numero totale dei seggi della
Knesset oppure 80% del numero dei seggi ebraici della Knesset)
Destra: (partiti totalmente in linea con i principi su cui si basa l'Estrema
Destra con l'unica differenza di non rifarsi apertamente alla pulizia etnica
come piattaforma politica. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, in base a
cui parecchi importanti leader dei Labor hanno a volte fatto riferimento
alla pulizia etnica, ma mai come vera e propria parte del proprio programma
politico, a differenza dei partiti dell'estrema destra):
Labor: 13
United Torah Judaism: 5
Meretz: 3
------------ --------- -------
TOTALE (Destra): 21 seggi (16% del totale oppure 19% dei seggi ebraici)
Centro: (partiti che sostengono il completo ritiro dai territori occupati
nel 1967, ma si oppongono al diritto di uguaglianza per tutti i cittadini
dello stato e al diritto al ritorno. Può sembrare generoso definirli di
"centro", ma.):
NESSUN SEGGIO
Sinistra: (partiti che sostengono il completo ritiro dai territori occupati
nel 1967, il diritto di uguaglianza per tutti i cittadini dello stato e il
diritto al ritorno. Si impegnano per una soluzione basata sulla creazione di
due stati in pace tra loro, in accordo con le leggi internazionali e i
principi dei diritti universali dell'uomo):
United Arab List: 4 (partito completamente palestinese - politicamente di
sinistra, ma con politiche sociali di destra)
Hadash (comunisti) : 4 (da notare che meno dell'1% degli ebrei israeliani
ha votato per loro e può essere, perciò, statisticamente considerato come un
partito palestinese)
Balad (democratici nazionali): 3 (partito completamente palestinese)
------------ --------- --------
TOTALE (Sinistra): 11 seggi (9% del totale)
E' molto importante notare che, in base alle prime informazioni fornite dai
media, metà della popolazione palestinese in Israele sembra abbia boicottato
le elezioni e che si sia trattato del più grande boicottaggio della storia.
Se questo fosse vero, significherebbe che i partiti palestinesi sopra citati
rappresenterebbero meno della metà dei palestinesi aventi diritto al voto in
Israele!
Conclusioni principali:
(1) La stragrande maggioranza della popolazione ebraica israeliana ha votato
per l'estrema destra (considerando anche un notevole aumento del sostegno
alla destra fascista)
(2) La sinistra israeliana (sionista) non esiste, come prevedibile, come
forza politica in Israele
(3) Gli UNICI partiti di sinistra in Israele sono partiti completamente
palestinesi
(4) In Israele c'è un forte consenso ebraico (le uniche eccezioni sono
rappresentate da alcuni singoli coraggiosi e moralmente integri e da
minuscoli gruppi anti-sionisti) che si muove CONTRO ogni basilare requisito
necessario per il raggiungimento di una pace giusta, così come esposto nelle
risoluzioni dell'ONU e sostenuto dalla maggior parte dei governi del mondo.
(5) Per la prima volta nella storia delle elezioni parlamentari in Israele,
gli elettori palestinesi hanno rifiutato di votare per i partiti sionisti
come mai era successo in passato, scegliendo invece di votare per i partiti
palestinesi.
Cosa si può fare?
E' fondamentale, in questo momento più che mai, abbandonare la soluzione del
doppio stato, morta, immorale e ormai impossibile, per abbracciare quella di
un unico stato. Solo col rifiuto di ogni forma di razzismo, di apartheid, di
etnocentrismo, di fondamentalismo religioso e di colonialismo e accettando
pienamente l'uguaglianza totale e la democrazia, compreso il diritto al
ritorno dei profughi, potremo dare vita ad una pace giusta e sostenibile.
La richiesta di una soluzione basata sul doppio stato è diventata ormai una
vera cortina di fumo usata per coprire e legittimare la continua occupazione
e l'apartheid sionista.
Omar Barghouti
Da Haaretz, di seguito troverete un'analisi dettagliata dei risultati
elettorali di tutti i partiti, raccolti in gruppi in base alle loro
posizioni nei confronti delle leggi internazionali e del rispetto dei più
basilari diritti umani. Perché crediamo che solamente questi criteri
universali dovrebbero essere utilizzati, in Israele come nel resto del
mondo, per stabilire chi si possa definire di 'destra', di 'sinistra', di
'estrema destra' ecc. Le modalità usate comunemente in Israele per definire
la "sinistra", la "destra" e il "centro" e il loro utilizzo per descrivere
rispettivamente Labor, Likud e Kadima, sono totalmente inesatte e
volutamente fuorvianti dal momento che non si basano su alcun criterio
oggettivo per definire cosa si intenda per "destra" e per "sinistra".
Purtroppo, però, queste etichette tipicamente israeliane senza alcun vero
significato vengono ancora scimmiottiate, parola per parola, dai cronisti,
compresi quelli più progressisti, senza che venga mai fatta alcuna
riflessione sulla loro esattezza o pertinenza.
Su qualunque parametro oggettivo si scelga di basarsi, i risultati
elettorali israeliani non possono che portare a mostrare le seguenti
categorie:
Estrema Destra: (partiti che adottano apertamente piattaforme politiche
razziste o fasciste basate sull'espulsione forzata o sulla pulizia etnica
dei cittadini palestinesi in Israele, in base alle più svariate condizioni
che dipendono dal partito specifico in questione; che giustificano e/o
commettono crimini di guerra e gravi violazioni delle leggi internazionali;
che non riconoscono le risoluzioni ONU e le leggi internazionali come LE
basi per il raggiungimento di una giusta pace; che non riconoscono i tre
principali diritti sanciti per i Palestinesi dalle leggi internazionali: (1)
diritto alla fine dell'occupazione e al ritiro degli israeliani ai confini
stabiliti nel 1967, come da UNSC Res. 242, ivi compreso il ritiro da
Gerusalemme Est occupata; (2) diritto riconosciuto ai profughi dall'ONU ad
un risarcimento e a poter ritornare alle proprie abitazioni originarie; (3)
diritto di completa eguaglianza all'interno di Israele e fine del razzismo
istituzionale esercitato nei confronti di tutti i cittadini "non ebrei"):
Yisrael Beitenu: 15 seggi della Knesset (Parlamento)
National Union: 4
Shas: 11
Jewish Home: 3
Likud: 27
Kadima: 28
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TOTALE (Estrema Destra): 88 seggi (73% del numero totale dei seggi della
Knesset oppure 80% del numero dei seggi ebraici della Knesset)
Destra: (partiti totalmente in linea con i principi su cui si basa l'Estrema
Destra con l'unica differenza di non rifarsi apertamente alla pulizia etnica
come piattaforma politica. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, in base a
cui parecchi importanti leader dei Labor hanno a volte fatto riferimento
alla pulizia etnica, ma mai come vera e propria parte del proprio programma
politico, a differenza dei partiti dell'estrema destra):
Labor: 13
United Torah Judaism: 5
Meretz: 3
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TOTALE (Destra): 21 seggi (16% del totale oppure 19% dei seggi ebraici)
Centro: (partiti che sostengono il completo ritiro dai territori occupati
nel 1967, ma si oppongono al diritto di uguaglianza per tutti i cittadini
dello stato e al diritto al ritorno. Può sembrare generoso definirli di
"centro", ma.):
NESSUN SEGGIO
Sinistra: (partiti che sostengono il completo ritiro dai territori occupati
nel 1967, il diritto di uguaglianza per tutti i cittadini dello stato e il
diritto al ritorno. Si impegnano per una soluzione basata sulla creazione di
due stati in pace tra loro, in accordo con le leggi internazionali e i
principi dei diritti universali dell'uomo):
United Arab List: 4 (partito completamente palestinese - politicamente di
sinistra, ma con politiche sociali di destra)
Hadash (comunisti) : 4 (da notare che meno dell'1% degli ebrei israeliani
ha votato per loro e può essere, perciò, statisticamente considerato come un
partito palestinese)
Balad (democratici nazionali): 3 (partito completamente palestinese)
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TOTALE (Sinistra): 11 seggi (9% del totale)
E' molto importante notare che, in base alle prime informazioni fornite dai
media, metà della popolazione palestinese in Israele sembra abbia boicottato
le elezioni e che si sia trattato del più grande boicottaggio della storia.
Se questo fosse vero, significherebbe che i partiti palestinesi sopra citati
rappresenterebbero meno della metà dei palestinesi aventi diritto al voto in
Israele!
Conclusioni principali:
(1) La stragrande maggioranza della popolazione ebraica israeliana ha votato
per l'estrema destra (considerando anche un notevole aumento del sostegno
alla destra fascista)
(2) La sinistra israeliana (sionista) non esiste, come prevedibile, come
forza politica in Israele
(3) Gli UNICI partiti di sinistra in Israele sono partiti completamente
palestinesi
(4) In Israele c'è un forte consenso ebraico (le uniche eccezioni sono
rappresentate da alcuni singoli coraggiosi e moralmente integri e da
minuscoli gruppi anti-sionisti) che si muove CONTRO ogni basilare requisito
necessario per il raggiungimento di una pace giusta, così come esposto nelle
risoluzioni dell'ONU e sostenuto dalla maggior parte dei governi del mondo.
(5) Per la prima volta nella storia delle elezioni parlamentari in Israele,
gli elettori palestinesi hanno rifiutato di votare per i partiti sionisti
come mai era successo in passato, scegliendo invece di votare per i partiti
palestinesi.
Cosa si può fare?
E' fondamentale, in questo momento più che mai, abbandonare la soluzione del
doppio stato, morta, immorale e ormai impossibile, per abbracciare quella di
un unico stato. Solo col rifiuto di ogni forma di razzismo, di apartheid, di
etnocentrismo, di fondamentalismo religioso e di colonialismo e accettando
pienamente l'uguaglianza totale e la democrazia, compreso il diritto al
ritorno dei profughi, potremo dare vita ad una pace giusta e sostenibile.
La richiesta di una soluzione basata sul doppio stato è diventata ormai una
vera cortina di fumo usata per coprire e legittimare la continua occupazione
e l'apartheid sionista.
Omar Barghouti
martedì 17 febbraio 2009
E POI LA STORIA CADDE DA CAVALLO
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Perlopiù questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finchè la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano.
(Primo Levi)
Non c’è sionismo, colonizzazione o Stato ebraico senza l’espulsione degli arabi e la confisca delle loro terre.
(Ariel Sharon, premier israeliano, 1998)
L’unico vero viaggio di esplorazione non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.
(Marcel Proust)
(Primo Levi)
Non c’è sionismo, colonizzazione o Stato ebraico senza l’espulsione degli arabi e la confisca delle loro terre.
(Ariel Sharon, premier israeliano, 1998)
L’unico vero viaggio di esplorazione non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.
(Marcel Proust)
A proposito della citazione da un Primo Levi, che, ironicamente, non sapeva di parlare della comunità a cui apparteneva, anche Gaza, appunto, è un lager, completo di forni crematori piovuti dall’alto e di camere a gas. Non è un “carcere a cielo aperto”, come compassionevoli erroneamente dicono. Nel carcere il prigioniero ha prima avuto un avvocato e un giudice, poi nutrimento e cura, visite dei famigliari e amici, vestiario, acqua, luce, fogne, fino all’ora d’aria. E, alla fine, libertà e autodeterminazione. Il termine “carcere” per Gaza e per il resto della Palestina è inadeguato
Le elezioni generali del 14 febbraio 2009 in Israele hanno completato l’operazione sionista-imperialista “Piombo Fuso” che aveva, tra gli altri obiettivi, quello di fondere un altro bel segmento del popolo palestinese e di con-fondere tutti quelli che nello “Stato degli ebrei” e fuori sollevavano dubbi, pochini, o manifestavano opposizione, ancor meno, circa il nuovo e ancor più drastico genocidio. Forse è l’unico risultato dell’aggressione a Gaza che la destra razzista, guerrafondaia e genocida, tra i tanti ambiti, può vantare, visto che la Resistenza è sempre in vita, che neanche un centimetro quadrato di Gaza City ha potuto essere occupato, che l’immagine dello Stato sionista ha subito a livello internazionale un tracollo tale da rappresentare una svolta. Salvo che nella società israeliana. La mobilitazione etnocida suscitata con la gara a chi, tra i successori di Olmert, era più determinato nella liquidazione, fisica dopo quella politica di Abu Mazen e dell’ANP, dei palestinesi e dei loro combattenti, ha fatto prevalere la destra di Kadima dell’ex-terrorista Mossad, Tzipi Livni, terminator in diretta, e l’estrema destra del Likud di Benjamin Netaniahu, terminator in differita, con sulla spalla l’avvoltoio da caccia Yisrael Beitenu, il partito trionfatore del conclamato nazista Avigdor Lieberman (“Buttiamo L’atomica su Gaza”, “Giuramento di fedeltà allo Stato ebraico dei palestinesi cittadini, sennò fuori dalle palle”). Il nuovo governo non durerà. La voracità e corruttela di tutti i protagonisti, epitomizzata dal malavitoso Olmert, rappresenta un’equazione in cui lo spostamento dei fattori non cambia il risultato E’ solo questione di più o meno cerone. Dai tagliagole di Lieberman alla pallidissima “sinistra di “Eretz”, stroncata da un elettorato con il pugnale fra i denti, non c’è divergenza strategica e c’è pochissima discrepanza tattica. C’è chi ha seguito le guerre al Libano e l’assalto a Gaza con serie di orgasmi, chi con calorosi battimani, chi voltandosi dall’altra parte.
Recitano tutti più parti in una commedia che ha un unico esito: i palestinesi non sono mai esistiti, non esistono, non devono esistere. C’è la candida star del “dialogo”, il furbacchione dei due Stati, il castigamatti dell’espulsione e soluzione finale. Il voto degli israeliani, riscaldato dalle fiamme di Gaza, ha prediletto quest’ultimo ruolo. Finchè c’è qualcuno di autoctono su questa terra e la rivendica, la spada di Damocle della fama di usurpatore continuerà a pendere su Israele. Finora l’hanno trattenuta e occultata l’industria della Shoa, il giochino fregoliano del carnefice che si traveste da vittima, lo psicoterrorismo dell’ ”antisemitismo”, la terroristizzazione dei palestinesi e degli islamici, l’aiuto incondizionato degli Usa, trainati più che cocchieri, la complicità del’UE e dei suoi componenti, la comunità ebraica mondiale, le ramanzine all’acqua di rose e comunque equidistanti di alcune sinistre, il profondissimo “rispetto” che si porta a uno Stato che possiede 400 atomiche e minaccia di utilizzarle. Ma a Gaza la storia è caduta da cavallo.Teorizzare soluzioni di continuità tra Bush e Obama, o, meglio, in tutta la trisecolare storia imperialista e genocida Usa, e tra Begin, Rabin, Olmert, Livni e Netaniahu, o nell’ultrasecolare storia della colonizzazione ebraica, è autodecebrazione e autolesionismo. Vuol dire non vedere l’imperialismo mentre ti colpisce come un maglio, aver perso ogni percezione della lotta tra le classi e degli interessi che la muovono.
Lieberman, di cui nessun collega nella Knesset o nelle coalizione di governo, oserebbe dire che è mandante di crimini, è con i suoi 15 seggi l’ago della bilancia degli equilibri politici israeliani. Sia che funzioni come kapò in prima persona, che come colui grazie al quale si possono far passare nefendezze antipalestinesi di altri con l’avvertimento “altrimenti arriva Lieberman” (ricordate: “altrimenti arriva Berlusconi” ?), lo psicopatico nucleare è perfettamente in linea con oltre cent’anni di storia sionista. Una continuità consacrata ancora una volta da quelle elezioni. Diceva Herzl, fondatore del sionismo, nel 1895 : “Dovremmo provare a far sparire la miserabile popolazione araba oltre i confini, magari trovandogli lavoro nei paesi vicini, ma negandogli ogni attività nel nostro paese. Sia il processo di espropriazione che la rimozione di questi miserabili devono essere realizzati in modo discreto e circospetto”. Oggi, con alle spalle la potenza Usa, la collusione europea, l’ignavia delle sinistre e 400 atomiche, Israele si è potutao disfare sia dell’incombenza di trovare lavoro a chicchessia, sia degli aggettivi “discreto” e “circospetto”. Oggi ha pensato di poter non guardare in faccia a nessuno e generare dalla sua esperienza nuovi olocausti a muso duro. Dice Israele per bocca di Lieberman: ”Devono scomparire, andarsene in paradiso, tutti quanti, e non ci può essere alcun compromesso ”. E’ la stessa voce che raccomandò a Israele di “fare ai palestinesi la stessa cosa che gli Stati Uniti fecero a giapponesi a Hiroshima e Nagasaki”. In sintonia con il processo in corso da un secolo, questo emigrato dalla Russia, decide la sorte dei palestinesi chiunque sia primo ministro nella giunta militare di Tel Aviv. E’ l’ormai conclamata e aggressiva esibizione di un obiettivo finale sino a qualche tempo fa sottoposto a correzioni cosmetiche come i negoziati di Oslo, Annapolis, Taba, o Camp David, la bufala dei due Stati per due popoli già ampiamente logorata da mezzo milione di coloni in espansione accelerata e dallo sminuzzamento delle comunità palestinesi in tronchetti separati e privi di qualsiasi agibilità. E’ l’escalation della persecuzione ed esclusione dei palestinesi cittadini israeliani, 1,2 milioni, un quinto degli abitanti dello Stato sionista, ai quali si impone l’obbligo di un giuramento di fedeltà allo Stato che li esclude e che devono subire monoetnico, teocratico, ebraico. Sennò raus! Era ben più flebile misura la richiesta del giuramento di fedeltà al fascismo fatta all’intellettualità italiana, o l’assunzione nell’amministrazione pubblica riservata ai tesserati al PNF.
Che questa masnada di invasati con la motosega raggiunga i suoi obiettivi sta in grembo a Giove.
Mentre la società israeliana va conoscendo una crisi sociale ed economica pari a quella sofferta all’apice della seconda intifada, nel 2002, con tutte le voci sociali in involuzione drammatica, la povertà oltre la soglia del quarto della popolazione, crisi in buona parte determinata dalle demenziali spese militari, dalle guerre continue, ma anche da una classe dirigente cleptocrate (vedi gli affari da furbetti del quartierino di Sharon, Olmert e dello stesso Lieberman accusato di riciclaggio), mentre senza il soccorso degli Usa il paese sarebbe immediatamente alla bancarotta, nessuno dei risultati sperati da Gaza è stato raggiunto. Se questo significa vittoria per Hamas e gli altri combattenti palestinesi, dal FPLP ai Comitati Popolari, alla Jihad e ai non rinnegati di Fatah, lo lascio decidere a qualche leguleio. Se Golia non è riuscito a schiacciare Davide, come voleva e come si era accuratamente preparato da tempo, già solo il fatto che Davide sia scampato lo fa vincitore della contesa. A Gaza, come nel Libano del 2000, prima cacciata degli occupanti israeliani, e del 2006, seconda cacciata. chi ha fallito è Israele. Mica gli Hezbollah volevano invadere Israele. Mica i palestinesi vogliono uccidere Golia. Si accontentano di non farsene togliere di mezzo. Chi ha vinto?
Hamas doveva essere annichilito, o spazzato via dalla sollevazione popolare. Hamas ha resistito, tra le macerie delle sue infrastrutture amministrative, come ha resistito a vent’anni di guerra a bassa intensità. E Hamas, ammettono tutti e confermano i sondaggi, è oggi più popolare e politicamente forte che mai, sia nella martoriata Gaza, che in Cisgiordania sotto le milizie di Abu Mazen, ascari di USraele. Conta relativamente che si tratti di organizzazione religiosa. Conta che è la forza patriottica. In quel “governo di unità nazionale”, che è la soluzione “B” di Israele se non riuscisse a eliminare Hamas e che avrebbe dovuto vedere il ritorno a Gaza dei golpisti di Abu Mazen e Mohammed Dahlan, con un Hamas indebolito in posizione marginale, sarebbe ora Hamas ad avere un peso preponderante. Mahmud Abbas, che si ostina a fare il presidente palestinese in spregio alla fine del mandato il 9 gennaio 2009, non rappresenta più nessuno, se non la minuta cricca di complici del tradimento e di funzionari e pretoriani stipendiati. Ce ne vorrà, per Israele e la “comunità internazionale”, a ricostruirlo come fantoccio credibile. L’estremizzazione del suo servilismo verso il massacratore del proprio popolo, concretizzata nell’asserzione che “la colpa della tragedia di Gaza era di Hamas e dei suoi razzi”, lo ha screditato per sempre di fronte a palestinesi e arabi, salvo quelli insieme a lui appesi alla greppia colonialista. Se Mubaraq, Israele, la “comunità internazionale” si ostineranno a tenerlo in piedi, terranno in piedi un corpo ad alimentazione e idratazione forzata. I fili dai quali pende questo burattino sono diventati visibili come cime di transatlantico. Non li potranno oscurare neanche quelle forze internazionali, Nato, Ue o altro (con gli italiani ascari di prima linea), avventandosi sulle acque e ai valichi di Gaza, magari anche dentro, per ingraziarsi un Israele e un’ebraicità dalle potenti dimensioni planetarie, rigonfiando il chewing gum Abu Mazen e mettendo su Gaza le mani e sui palestinesi quelle manette che a Tsahal non sono riuscite. Per misurare la portata della sua “vittoria”, a Israele non rimane che fare il calcolo dei palestinesi ammazzati, delle distruzioni, dei mutilati, dei senzatetto, della prole incenerita, delle sofferenze inflitte agli “scarafaggi impazziti” e del genocidio al rallentatore assicurato da uranio e fosforo, fame, sete, malattia. Di fronte alla constatazione che questa illimitata ferocia, questa violazione di ogni più vago senso di umanità, non ha minimamente smosso la popolazione colpita dal suo impegno di resistenza e di liberazione, Israele è disarmato. Si sente disarmato. Sente che questi palestinesi, i quali sanno morire mentre gli israeliani no, sono incomprensibili, inafferrabili, invincibili. Il trionfo decretato agli assassini di massa nelle elezioni parrebbe un segno della disperazione. Per quella parte di Israele, per i rinnegati dell’ANP e per i gentiluomini della sinistra mondiale che si rassegnavano alla soluzione dei due stati per due popoli, la sconfitta è particolarmente irrimediabile. Gaza quella soluzione l’ha disintegrata. D’ora in poi lo Stato Unico, binazionale, democratico, pluralista, opzione araba e palestinese storica come dettavano giustizia e realismo, quello Stato che gela il sangue agli attuali propugnatori di Eretz Israel, torna all’ordine del giorno. Già ridotto ad armamentario da soffitta per pochi illusi, cresce nella consapevolezza della parte migliore, minuta ma dinamica della società israeliana, s’imporrà come necessità storica a quella più reazionaria e sciovinista, è opzione favorita da un settore crescente dell’opinione internazionale. Per quanto possano opporsi ancora per lungo tempo le resistenze psicologiche, culturali, di una disonestà intellettuale nemmeno percepita come tale, questo dato di fatto, l’unico realistico, ha la forza della giustizia, della verità e, dunque, della storia vecchia caduta da cavallo e indirizzata su un’altra strada. Come con Paolo di Tarso, ma molto meglio illuminata di lui.
Dopo Gaza, con le infinite e oceaniche manifestazioni di massa contro l’eccidio e i tiranni arabi collusi, seppure duramente represse da regimi pencolanti, gli equilibri di forza nel mondo arabo si sono modificati. Il mare, appena increspato in superficie, è agitato nel profondo. E’ inesorabile, per quanto non immediata, l’apertura dell’atto finale di questi regimi, minati fino al midollo da abissi di classe e povertà smisurata, servilismo di casta, corruzione, rigor mortis civile, arbitrio e ferocia repressiva. Farà la sua parte anche la crisi capitalista che imporrà drastici tagli alle sovvenzioni in moneta e in armi con cui l’imperialismo ha finora puntellato economie zombie. E una parte la farebbe anche Israele se, al di là delle esitazioni della cricca Obama cui i persiani servono da complici nel disfacimento dell’Iraq, dell’Afghanistan, domani forse del Pakistan, i suoi avventuristi più deliranti andassero all’attacco dell’Iran. Interessante sarebbe vedere che cosa quella miccia innescherebbe nel mondo musulmano e nel Sud tout court. Come se la caverebbero intorno al Golfo gli Usa, sia per l’obbedienza dei regimi fantoccio messi in piedi, condizionati e protetti dall’Iran, sia per le rotte del petrolio? Il momento in cui Obama farà andare le automobili e le fabbriche a pannelli solari è ancora lontano ed è credibile solo per i mitomani convinti della “diversità” di questa maschera nera sul cannibale bianco.
Coloro, i più, che insistono a non voler vedere la Palestina e la sua lotta di liberazione, che è di classe, oltrechè nazionale e geopolitica, nel contesto dell’intera nazione araba, fanno torto alla coscienza, alle aspirazioni e al destino di quei popoli. Isolare la Palestina, pur mettendola su un piedistallo, sarà romantico, ma non è di sostegno né ai palestinesi, né alle masse che ovunque stanno schierate con i palestinesi e per una liberazione di tutta la comunità araba. Come si fa a non ricordare l’unità storica di queste genti, sia sotto gli ottomani, sia sotto il colonialismo, sia nella guerra di liberazione, vittoriosa quando unita ha perseguito il progetto delle decolonizzazione. Un’unità di destino che richiama quella bolivariana dell’America Latina. La massa critica per la liberazione del pezzo di mondo tra Oceano Atlantico e Golfo arabo-persico sta nell’unità dei popoli, di classe e antimperialista. Non confiniamo i palestinesi in un particolare che, più che caro, ci è comodo. Non escludiamo, per esempio, gli iracheni che subiscono da sei anni una Gaza alla settimana e non sono domati. L’esempio di queste due resistenze è diventato un sistema arterioso di coscienza e passione in tutto il mondo arabo e ben oltre.
La prospettiva di quel “Nuovo Medio Oriente”, propalato da Condoleezza Rice, con un processo di frantumazione delle comunità nazionali ed entità statali lungo linee etnico-confessionali, per una definitiva presa di controllo e per l’ampio spopolamento (assedi, embarghi, malattie, inedia) della più significativa regione geopolitica ed economica del pianeta, è in frantumi. Regimi arabi, come il Qatar e la Mauritania, arrivano alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, despoti tra i più trucidi, collusi e dipendenti, come Mubaraq e il saudita Abdallah, sono costretti dalla furia popolare ad adottare penosissime misure antisraeliane, come le inchieste e denunce giudiziarie per i crimini israeliani di guerra e contro l’umanità. Il vasto Sudan sta in piedi e accanto alle resistenza, a dispetto delle diffamazioni islamofobiche e dei complotti secessionisti messi in opera, dal Sud al Darfur, dai revanscisti del colonialismo. Dice il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), da sempre sulla linea della connessione strategica, che la questione palestinese è solo l’anello più incandescente della catena che unisce gli arabi e, oltre gli arabi, gli oppressi e repressi del mondo. La catena va agitata da tutti i lati.
Vediamo come si è mossa nel resto del mondo, perché è anche lì che la storia è caduta da cavallo ed è da lì che va gettato lo sguardo sul futuro. La campagna israeliana contro Gaza (che occultava quella simultanea e perenne in Cisgiordania a base di assassinii, espropri, espulsioni, arresti indiscriminati, nuovi insediamenti), doveva essere accompagnata e seguita da un uragano di propaganda dei consueti corifei, quelli scoperti alla Ferrara e quelli coperti alla Ovadia, incaricati di bilanciare i grovigli di bimbetti uccisi a Gaza, passati per le crepe dell’informazione amica, con il rumore assordante del vittimismo ebraico. Fenomenale, a questo proposito, la schizofrenia di ebrei “illuminati” alla Gad Lerner che dedicano trasmissioni intere alla riprovazione del razzismo, delle leggi razziali di Mussolini e di Maroni, e non si avvedono del parallelismo con il razzismo ontologico della loro casa madre. Si doveva dar fiato alla neolingua dell’imperialismo nella quale l’uccisione di migliaia di civili si chiama “autodifesa”, la resistenza è “terrorismo”, i razzi fatti in casa di Hamas sono “armi di distruzione di massa”, le donne e i bambini uccisi nelle incursioni o sono “reclute di Hamas”, o da Hamas sono utilizzati come “scudi umani” (l’unica documentazione di scudo umano sono ragazzi palestinesi legati ai blindati israeliani) e il blocco economico, gli assassinii mirati, gli attacchi ai pescherecci, i 700 posti di blocco, non possono che essere mirati a convincere i palestinesi dei vantaggi della pace sotto la tutela dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”. E’ una neolingua usata da tutti i media e che è andata alla grande a Davos, al consesso della criminalità organizzata capitalista, ed è del resto ripresa con particolare entusiasmo dal partito bifronte che monopolizza la rappresentanza politica in Italia, con strascichi fin negli improvvisamente moltiplicati paginoni “della memoria” nella stampa di sinistra.
Ha sempre funzionato, almeno fin da quando Arafat, il cui curriculum diplomatico pre-guerra infinita dei Bush aveva conservato ai diritti palestinesi un briciolo di considerazione, fu avvelenato e Fatah criminalizzata e bastonata come ora Hamas. Al punto che la cosiddetta società civile aveva finito col distinguere tra giusto e torto, pur quando gli si imprimevano sugli occhi. La truffa dell’11 settembre, poi, aveva messa buona parte del mondo in pesante disagio di fronte all’Islam. Si pensi all’indecenza fascistoide di bandire la preghiera degli immigrati davanti alle nostre chiese. Ci hanno nascosto un film dell’orrore che neanche Kronenberg, raccontandoci che Gaza non sarebbe stata rasa al suolo non fosse stato per quei razzi, anzi “missili”, Kassam (ottomila in otto anni, pari a mezz’ora di bombardamenti su Gaza, nessuno nelle settimane della tregua); che non fosse per il muro che riduce al 12% la Palestina dei palestinesi, ci sarebbero ancora donne e bambini che saltano per aria negli autobus o nei caffè: che se non avessero distrutto i tunnel tra Egitto e Gaza, Hamas avrebbe avuto i mezzi per “distruggere Israele” (se per quelle vene giugulari fossero passati missili e cannoni, e non cibo, maglioni e mattoni, com’è che i guerriglieri continuano a immolarsi da decenni con i soli mitra e qualche bazooka?). E’ un perfetto rovesciamento di causa ed effetto, dimenticando che la storia non iniziò con attentatori suicidi, ma con il furto della Palestina e che, se non ci fosse occupazione, non ci sarebbe decimazione e oppressione di un popolo e, dunque, niente resistenza.
Ma la Storia, a Gaza, è caduta da cavallo. Quattro quinti degli 8 miliardi di abitanti del mondo hanno visto che quella letale potenza d’attacco era stata concepita al momento del ritiro dei coloni da Gaza e preparata sei mesi prima, hanno saputo che la tregua, mille volte proposta da Hamas, anche per durate pluridecennali, è stata violata prima e riviolata dopo da Israele. Hanno collegato i colpi di mano del 1948 (quello che a ferro e fuoco allargò la parte israeliana della spartizione ONU), all’aggressione tripartita all’Egitto nel 1956, all’attacco a freddo del 1967 per prendersi anche la Cisgiordania, il Golan e Gaza, alle invasioni gratuite del Libano e alla rioccupazione della Cisgiordania nel 2004. I bambini frantumati a Gaza, bianchissimi nei loro sudari-fagotto, hanno richiamato le immagini dei bambini bruciati nei loro villaggi all’epoca della spartizione e di quelli cui l’Israele di Rabin spezzava le ossa nella prima Intifada e l’Israele di Sharon fucilava nella seconda. Si è dipanato un filo rosso che nella parte migliore del mondo ha saputo infilzare di netto l’occhio del ciclone della neolingua. Come era successo alla fine dell’era Bush, quando lo psicolabile omaggiato dai colonizzati europei, fu perfino da costoro, come già da tempo dal resto del mondo, sbeffeggiato per l’inettitudine economica e rinnegato per le prevaricazioni belliche. Per la prima volta governi di grandi paesi, come il Venezuela e la Bolivia, ma anche di paesi arabi reazionari e filoamericani come il Qatar e la Mauritania, hanno rotto le relazioni diplomatiche con Israele. Il Dubai, che relazioni non ne ha, ha sbertucciato il potente dominus del Medioriente negando l’ingresso a una tennista israeliana. Nel parlamento del protettorato Usa Kuwait si sono espressi anatemi contro Israele. Merito anche di quella fonte alternativa di informazione che è l’emittente Al Jazeera, appunto del Qatar, a dimostrazione della potenza di una televisione libera, professionale e onesta.
Delle manifestazioni quasi insurrezionali delle masse in tutti i paesi arabi e musulmani abbiamo detto. Anche senza una continuità in superficie, avverte i satrapi al potere dell’inarrestabile crescita della coscienza collettiva, guidata da una porzione crescente dell’intellighenzia, sollecitata dall’Afghanistan e dall’Iraq e ormai lucidissima dopo Gaza. Un colpo terribile alla posizione geostrategica di Israele lo ha portato la Turchia, alleato fondamentale e potente nell’area, quando il premier Ordagan ha stigmatizzato l’olocausto di Gaza e, nell’empireo capitalista di Davos, ha dato sulla voce al presidente israeliano Simon Peres, vecchio strumento del genocidio, Premio Nobel per la pace: “Ecco l’infanticida. Non me la sento di stare in un posto dove c’è un fottuto terrorista sionista” e lo ha piantato stravolto davanti a una platea attonita di gazzettari di casta. L’idea di attraversare lo spazio aereo turco per fare sfracelli in Iran è così svaporata. Infine, a Israele si è sciolto tra le mani il proconsole palestinese, un governo, quello di Abu Mazen, che ormai sta in piedi unicamente perché sorretto dagli affusti forniti dagli Usa. Per quanti sforzi possano fare per rimpannucciare l’ANP, tutti sanno che il rappresentante del popolo palestinese oggi è Hamas, più le sinistre del FPLP e DFLP e i non rinnegati di Fatah con Marwan Barghuti alla testa.
I tiepidi e repressi dubbi che perfino le classi dirigenti occidentali, più spiccatamente il Vaticano, concorrente dell’ebraismo in beni e proselitismo, hanno incominciato a nutrire, sono stati sospinti dalla sollevazione di interi settori e categorie di popolazione che, rincuorati dal crescente dinamismo delle forze di solidarietà con i palestinesi e con i popoli oppressi in generale, hanno assunto posizioni di condanna e di opposizione. Si moltiplicano università e ambiente accademici che proclamano il boicottaggio degli equivalenti israeliani, studenti in Gran Bretagna, Grecia e Francia occupano atenei, fiere vengono precluse a operatori israeliani (a dispetto del “manifesto” che deprecava il boicottaggio della Fiera del Libro a Torino e a Parigi), si moltiplicano i seminari sulla realtà mediorientale, aziende si ritirano dalla collaborazione, agenzie Onu, Croce Rossa, i cui aiuti agli affamati di Gaza vennero incenerite dagli F16, organizzazioni umanitarie, corpi giuridici, trovano spazio nella pubblicistica con le loro denunce dettagliate delle atrocità israeliane, tutti indifferenti al sempre più logoro stereotipo e falso tabù dell’ “antisemitismo”. I greci, sudditi Nato, imitati dai portuali sudafricani, hanno impedito che spedizioni Usa di armi per l’assassinio di massa di Gaza passassero dal porto di Astakos (poi transitate per i compiacenti porti della colonia Italia). In molti paesi sono state comprate impensabili pagine intere dei giornali per denunciare dettagliatamente i crimini israeliani. Perfino il maggiordomo Usa all’ONU, Ban Ki Moon, ha detto tra i frantumi di Gaza: “Mi si è spezzato il cuore”. Lo spietato, criminale uso di armi illegali e mirate alla gente, ha aperto molti più occhi di quanti ne abbia chiuso a Gaza. Ha fatto pensare: “ma questi allora sono anche pronti a buttare l’atomica (che secondo un consigliere alla Difesa israeliano “può raggiungere tutte le grandi città europee”.
Un sondaggio globale della BBC ha trovato che Israele è considerata uno dei due paesi che esercitano la peggiore influenza sul mondo. Tutt’a un tratto ci si è ricordati che Israele è lo Stato, peggio del Sudafrica dell’apartheid, che non adempie a nessuna delle leggi internazionali e nemmeno alle risoluzioni dell’ONU e dei tribunali internazionali e che è l’unico al mondo, con gli Usa, ad aver legalizzato la tortura con tanto di impunità per tutto questo. Quella che si definisce la “comunità internazionale” e che non è che un circolo di mercanti, banchieri, guerrafondai, mafiosi tutti, appare sempre più come “un nome d’arte che gli Usa si mettono quando fanno teatro ” (Eduardo Galeano). Le si para davanti, secondo quanto prevede Naomi Klein, un nuovo movimento globale come quello che pose fine all’apartheid. Un movimento che, insieme al presidente dell’Assemblea dell’ONU e a paesi progressisti propugna sanzioni, boicottaggio, disinvestimento e isolamento dello Stato sionista e di chi lo frequenta e vi si associa. Un movimento che si mobilita contro gli accordi economici e militari tra UE e Israele in continua espansione.
Quando mai prima s’era visto tutto questo, quando ogni pulizia etnica, occupazione, massacro, distruzione, devastazione, soperchieria, barbarie, veniva definita moralmente giusta e di “autodifesa dai terroristi” ? Si sorvola con sempre più disinvoltura sul fatto che Unione Europea, Canada e gli Usa elencano quasi tutti i movimenti di liberazione nazionale nella categoria delle “organizzazioni terroristiche”, puntando a criminalizzare ogni forma di resistenza e a intimidire e poi neutralizzare i governi, le forze e comunità che sostengono i palestinesi e i i popoli in lotta. Particolarmente efficace la voce degli ebrei dissidenti, antisionisti, antioccupazione, capeggiati da nomi prestigiosi come Pappe, Chomsky, Warshawsky che, meno in Israele nonostante il grande coraggio dei refusenik, ma in grande crescita e vigore nel mondo occidentale, assumono posizioni non più meramente difensive e riduttrici, ma di aperta dissociazione, condanna e, sempre più, di appoggio all’inevitabile Stato unico. Una rottura nella solidarietà, fin qui quasi incondizionata, della diaspora che apre spazi sottratti alla già invincibile lobby ebraica. Il rapporto di forze, al di là dei tank e dei continui attacchi israeliani, sta lentamente mutando a favore dei palestinesi. E questo fa dei palestinesi e di tutti i combattenti antimperialisti l’avanguardia de deboli e oppressi.
Un’ attenzione a parte meritano le procedure giudiziarie avviate e in fieri che hanno per capo d’accusa i crimini contro l’umanità e di guerra commessi da Israele a Gaza. L’imputazione condivisa da magistrati e tribunali è quella sintetizzata in un’agghiacciante documento pubblicato su The Lancet, la più prestigiosa rivista medica del mondo. Parte dai 1.350 direttamente uccisi a Gaza, con tanti altri a venire per contaminazioni o mutilazioni, di cui il 60% bambini, dai quasi 6.000 gravemente feriti, di cui il 40% bambini, contro zero vittime di razzi Kassam nell’anno prima e 28 negli otto anni precedenti. Nel Sudafrica dell’apartheid l’atrocità maggiore fu l’eccidio di Sharpeville nel 1960 in cui la polizia sudafricana uccise 69 manifestanti neri. Alle vittime dell’aggressione il giornale aggiunge dati derivanti dall’occupazione e dall’assedio economico e sanitario. A queste cause va attribuita la morte annuale di 3000 bambini sotto i 5 anni per un totale di 4.286 morti palestinesi evitabili all’anno, 35.360 dal settembre 2000 in aggiunta ai 6.200 direttamente assassinati dalle forze israeliane. The Lancet guarda oltre. Tra il 1967 e il 2009 sono morti per cause legate all’occupazione 300mila palestinesi, mentre i morti ammazzati sono stati circa 10mila. Alle spalle di costoro ci sono i 35mila prigionieri di guerra arabi del 1967 giustiziati da Israele, a fianco gli 11mila palestinesi detenuti senza giusta causa e sottoposti a tortura. E mettendo in campo questa ininterrotta pulizia etnica, questa pervicace violazione di ogni diritto, queste punizioni collettive culminate con la carneficina di Gaza, che molti attori del sistema giuridico mondiale hanno giudicato Israele uno Stato fuorilegge, da espellere dall’ONU, e i suoi delitti meritevoli di un tribunale come quello di Norimberga contro i gerarchi nazisti. Procuratori in molti paesi che posseggono giurisdizione sui crimini contro l’umanità compiuti ovunque, come Spagna, Belgio, Inghilterra, Turchia, hanno avviato indagini e imputazioni. Lo ha fatto perfino il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja aprendo un fascicolo su crimini israeliani denunciati da centinaia di proponenti. Girano in rete elenchi di facce e biografie dei maggiori responsabili politici e militari israeliani da sottoporre a giudizio. Tanto preoccupa la cose i governanti sionisti da averli mossi a mettere in atto un apparato difensivo per i loro militari, a sconsigliarli dall’ avventurarsi in paesi con quella giurisdizione universale, a occultarne tardivamente l’identità, fino a farli apparire con le facce oscurate in televisione. Diversi alti ufficiali hanno dovuto cancellare le loro visite a paesi europei perché già indagati. E a rischio d’arresto. L’impunità incrinata è la ferita più grave inflitta da Gaza, con il suo sacrificio, a Israele.
Sono cose che un mese prima di Gaza sarebbero parse inconcepibili quanto l’assalto dei giacobini a chiese e monasteri. Fu una delle volte che la Storia cadde da cavallo e prese un’altra strada.
Forse il nuovo quadro geopolitico, culturale, strategico si vede meglio qui che da Gaza. Dove la protervia israeliana continua a pensare di potersi permettere di tutto. Chi vuol perdere, iddio lo acceca. Qui ci si misura con un assedio che non cessa, con il continuo rischio di incentivare l’ossessione omicida dei generali israeliani, con centinaia di corpi che si sbriciolano per effetto del fosforo, dell’uranio, delle bombe Dime che ti lasciano intatto fuori, sventrato dentro e incurabile, con grandi famiglie ridotte a un paio di sopravvissuti, con madri senza figli, con figli senza padri, con tende e anfratti ricavati tra le macerie, con gli ospedali che non funzionano più, con malattie che a Gaza non si possono curare, ma che si è impediti dal trattare fuori da Gaza. In questo Auschwitz levantino ti si nega ogni mattone che costruisce l’edificio vita. Ma a Gaza si sa anche che Israele ha fallito, sia nel rovesciare l’arcinemico, sia nel convincere la popolazione alla resa. E si percepisce anche che l’offensiva, per come ha indebolito i collaborazionisti dell’ANP, Autorità Nazionale Palestinese, ha rinsaldato l’unità dei palestinesi nei territori occupati e in Israele e anche quella con le grandi masse arabe e del Sud del mondo. La regione è in ebollizione è non tornerà facilmente al prima di Gaza.
Il bicchiere può sempre essere visto anche mezzo vuoto. La potenza militare di Israele resta integra e rifornita all’infinito dagli Usa del nuovo garante Obama. Altre incursioni e stragi si abbatteranno su Gaza. La metastasi colonialista si allarga incessantemente in Cisgiordania. La Nato, reinventata con D’Alema come strumento di rapina e sottomissione della “comunità internazionale”, si fa tutrice degli interessi USraeliani anche a ridosso di Gaza ed è pronta ad affiancare altre guerre di conquista imperialiste, in Asia, in Medio Oriente, in Africa. L’Italia, meretrice senza inibizioni e senza limiti opposti dalle sinistre, con nuovi comandi e forze di proiezione continentale per l’Africa, il Medio Oriente e l’Est stabiliti nelle nostre città e nei nostri porti, si fa catapulta di guerre verso popoli che, da amici, potrebbero salvarci la pelle e la civiltà. Se ne fanno garanti quelli che pretendono di essere un governo dello Stato, come quelli che se ne pretendono l’opposizione. E’ in vista uno sconquasso che costerà ancora molto all’umanità nelle spire della piovra morente. Ma è dal letame che nascono i fiori, come diceva De Andrè, e negli sconquassi si aprono i varchi verso il cielo.
Non sarà più facile credere che Israele, questo Israele, potrà integrarsi in un mondo arabo che è fatto da oltre 300 milioni di persone e di poche centinaia di notabili. Eppure in quel mondo integrarsi dovrà. Si potranno contare sulle punta delle dita i cittadini arabi che si aspettano dagli Usa democrazia e benessere. E questo gli costa il cambio del paradigma e del metodo. Sicuramente noi potremmo agevolare quel cambio: boicottaggio (il codice a barre 729, segno di prodotto israeliano), disinvestimento, sanzioni, procedimenti penali e tantissima informazione. E prima ancora il rifiuto della neolingua dell’imperialismo, a partire dalla criminalizzazione degli agnelli sacrificali con il teorema del terrorismo. Se anche da noi si capirà, come lo si è capito nel mondo non lobotomizzato, cosa è successo l’11 settembre a New York e a Washington, chi davvero è terrorista, sarà molto dura per Israele e per il suo padrino nordamericano accreditarsi ancora come fronte della civiltà contro il terrorismo. E la nuova generazione partorita dalla Storia caduta da cavallo avrà davanti a sé una strada più libera. Nessuno potrà più chiamare “terrorista” il combattente per la libertà, sua e dell’uomo. Di resistenza si vince.
Le elezioni generali del 14 febbraio 2009 in Israele hanno completato l’operazione sionista-imperialista “Piombo Fuso” che aveva, tra gli altri obiettivi, quello di fondere un altro bel segmento del popolo palestinese e di con-fondere tutti quelli che nello “Stato degli ebrei” e fuori sollevavano dubbi, pochini, o manifestavano opposizione, ancor meno, circa il nuovo e ancor più drastico genocidio. Forse è l’unico risultato dell’aggressione a Gaza che la destra razzista, guerrafondaia e genocida, tra i tanti ambiti, può vantare, visto che la Resistenza è sempre in vita, che neanche un centimetro quadrato di Gaza City ha potuto essere occupato, che l’immagine dello Stato sionista ha subito a livello internazionale un tracollo tale da rappresentare una svolta. Salvo che nella società israeliana. La mobilitazione etnocida suscitata con la gara a chi, tra i successori di Olmert, era più determinato nella liquidazione, fisica dopo quella politica di Abu Mazen e dell’ANP, dei palestinesi e dei loro combattenti, ha fatto prevalere la destra di Kadima dell’ex-terrorista Mossad, Tzipi Livni, terminator in diretta, e l’estrema destra del Likud di Benjamin Netaniahu, terminator in differita, con sulla spalla l’avvoltoio da caccia Yisrael Beitenu, il partito trionfatore del conclamato nazista Avigdor Lieberman (“Buttiamo L’atomica su Gaza”, “Giuramento di fedeltà allo Stato ebraico dei palestinesi cittadini, sennò fuori dalle palle”). Il nuovo governo non durerà. La voracità e corruttela di tutti i protagonisti, epitomizzata dal malavitoso Olmert, rappresenta un’equazione in cui lo spostamento dei fattori non cambia il risultato E’ solo questione di più o meno cerone. Dai tagliagole di Lieberman alla pallidissima “sinistra di “Eretz”, stroncata da un elettorato con il pugnale fra i denti, non c’è divergenza strategica e c’è pochissima discrepanza tattica. C’è chi ha seguito le guerre al Libano e l’assalto a Gaza con serie di orgasmi, chi con calorosi battimani, chi voltandosi dall’altra parte.
Recitano tutti più parti in una commedia che ha un unico esito: i palestinesi non sono mai esistiti, non esistono, non devono esistere. C’è la candida star del “dialogo”, il furbacchione dei due Stati, il castigamatti dell’espulsione e soluzione finale. Il voto degli israeliani, riscaldato dalle fiamme di Gaza, ha prediletto quest’ultimo ruolo. Finchè c’è qualcuno di autoctono su questa terra e la rivendica, la spada di Damocle della fama di usurpatore continuerà a pendere su Israele. Finora l’hanno trattenuta e occultata l’industria della Shoa, il giochino fregoliano del carnefice che si traveste da vittima, lo psicoterrorismo dell’ ”antisemitismo”, la terroristizzazione dei palestinesi e degli islamici, l’aiuto incondizionato degli Usa, trainati più che cocchieri, la complicità del’UE e dei suoi componenti, la comunità ebraica mondiale, le ramanzine all’acqua di rose e comunque equidistanti di alcune sinistre, il profondissimo “rispetto” che si porta a uno Stato che possiede 400 atomiche e minaccia di utilizzarle. Ma a Gaza la storia è caduta da cavallo.Teorizzare soluzioni di continuità tra Bush e Obama, o, meglio, in tutta la trisecolare storia imperialista e genocida Usa, e tra Begin, Rabin, Olmert, Livni e Netaniahu, o nell’ultrasecolare storia della colonizzazione ebraica, è autodecebrazione e autolesionismo. Vuol dire non vedere l’imperialismo mentre ti colpisce come un maglio, aver perso ogni percezione della lotta tra le classi e degli interessi che la muovono.
Lieberman, di cui nessun collega nella Knesset o nelle coalizione di governo, oserebbe dire che è mandante di crimini, è con i suoi 15 seggi l’ago della bilancia degli equilibri politici israeliani. Sia che funzioni come kapò in prima persona, che come colui grazie al quale si possono far passare nefendezze antipalestinesi di altri con l’avvertimento “altrimenti arriva Lieberman” (ricordate: “altrimenti arriva Berlusconi” ?), lo psicopatico nucleare è perfettamente in linea con oltre cent’anni di storia sionista. Una continuità consacrata ancora una volta da quelle elezioni. Diceva Herzl, fondatore del sionismo, nel 1895 : “Dovremmo provare a far sparire la miserabile popolazione araba oltre i confini, magari trovandogli lavoro nei paesi vicini, ma negandogli ogni attività nel nostro paese. Sia il processo di espropriazione che la rimozione di questi miserabili devono essere realizzati in modo discreto e circospetto”. Oggi, con alle spalle la potenza Usa, la collusione europea, l’ignavia delle sinistre e 400 atomiche, Israele si è potutao disfare sia dell’incombenza di trovare lavoro a chicchessia, sia degli aggettivi “discreto” e “circospetto”. Oggi ha pensato di poter non guardare in faccia a nessuno e generare dalla sua esperienza nuovi olocausti a muso duro. Dice Israele per bocca di Lieberman: ”Devono scomparire, andarsene in paradiso, tutti quanti, e non ci può essere alcun compromesso ”. E’ la stessa voce che raccomandò a Israele di “fare ai palestinesi la stessa cosa che gli Stati Uniti fecero a giapponesi a Hiroshima e Nagasaki”. In sintonia con il processo in corso da un secolo, questo emigrato dalla Russia, decide la sorte dei palestinesi chiunque sia primo ministro nella giunta militare di Tel Aviv. E’ l’ormai conclamata e aggressiva esibizione di un obiettivo finale sino a qualche tempo fa sottoposto a correzioni cosmetiche come i negoziati di Oslo, Annapolis, Taba, o Camp David, la bufala dei due Stati per due popoli già ampiamente logorata da mezzo milione di coloni in espansione accelerata e dallo sminuzzamento delle comunità palestinesi in tronchetti separati e privi di qualsiasi agibilità. E’ l’escalation della persecuzione ed esclusione dei palestinesi cittadini israeliani, 1,2 milioni, un quinto degli abitanti dello Stato sionista, ai quali si impone l’obbligo di un giuramento di fedeltà allo Stato che li esclude e che devono subire monoetnico, teocratico, ebraico. Sennò raus! Era ben più flebile misura la richiesta del giuramento di fedeltà al fascismo fatta all’intellettualità italiana, o l’assunzione nell’amministrazione pubblica riservata ai tesserati al PNF.
Che questa masnada di invasati con la motosega raggiunga i suoi obiettivi sta in grembo a Giove.
Mentre la società israeliana va conoscendo una crisi sociale ed economica pari a quella sofferta all’apice della seconda intifada, nel 2002, con tutte le voci sociali in involuzione drammatica, la povertà oltre la soglia del quarto della popolazione, crisi in buona parte determinata dalle demenziali spese militari, dalle guerre continue, ma anche da una classe dirigente cleptocrate (vedi gli affari da furbetti del quartierino di Sharon, Olmert e dello stesso Lieberman accusato di riciclaggio), mentre senza il soccorso degli Usa il paese sarebbe immediatamente alla bancarotta, nessuno dei risultati sperati da Gaza è stato raggiunto. Se questo significa vittoria per Hamas e gli altri combattenti palestinesi, dal FPLP ai Comitati Popolari, alla Jihad e ai non rinnegati di Fatah, lo lascio decidere a qualche leguleio. Se Golia non è riuscito a schiacciare Davide, come voleva e come si era accuratamente preparato da tempo, già solo il fatto che Davide sia scampato lo fa vincitore della contesa. A Gaza, come nel Libano del 2000, prima cacciata degli occupanti israeliani, e del 2006, seconda cacciata. chi ha fallito è Israele. Mica gli Hezbollah volevano invadere Israele. Mica i palestinesi vogliono uccidere Golia. Si accontentano di non farsene togliere di mezzo. Chi ha vinto?
Hamas doveva essere annichilito, o spazzato via dalla sollevazione popolare. Hamas ha resistito, tra le macerie delle sue infrastrutture amministrative, come ha resistito a vent’anni di guerra a bassa intensità. E Hamas, ammettono tutti e confermano i sondaggi, è oggi più popolare e politicamente forte che mai, sia nella martoriata Gaza, che in Cisgiordania sotto le milizie di Abu Mazen, ascari di USraele. Conta relativamente che si tratti di organizzazione religiosa. Conta che è la forza patriottica. In quel “governo di unità nazionale”, che è la soluzione “B” di Israele se non riuscisse a eliminare Hamas e che avrebbe dovuto vedere il ritorno a Gaza dei golpisti di Abu Mazen e Mohammed Dahlan, con un Hamas indebolito in posizione marginale, sarebbe ora Hamas ad avere un peso preponderante. Mahmud Abbas, che si ostina a fare il presidente palestinese in spregio alla fine del mandato il 9 gennaio 2009, non rappresenta più nessuno, se non la minuta cricca di complici del tradimento e di funzionari e pretoriani stipendiati. Ce ne vorrà, per Israele e la “comunità internazionale”, a ricostruirlo come fantoccio credibile. L’estremizzazione del suo servilismo verso il massacratore del proprio popolo, concretizzata nell’asserzione che “la colpa della tragedia di Gaza era di Hamas e dei suoi razzi”, lo ha screditato per sempre di fronte a palestinesi e arabi, salvo quelli insieme a lui appesi alla greppia colonialista. Se Mubaraq, Israele, la “comunità internazionale” si ostineranno a tenerlo in piedi, terranno in piedi un corpo ad alimentazione e idratazione forzata. I fili dai quali pende questo burattino sono diventati visibili come cime di transatlantico. Non li potranno oscurare neanche quelle forze internazionali, Nato, Ue o altro (con gli italiani ascari di prima linea), avventandosi sulle acque e ai valichi di Gaza, magari anche dentro, per ingraziarsi un Israele e un’ebraicità dalle potenti dimensioni planetarie, rigonfiando il chewing gum Abu Mazen e mettendo su Gaza le mani e sui palestinesi quelle manette che a Tsahal non sono riuscite. Per misurare la portata della sua “vittoria”, a Israele non rimane che fare il calcolo dei palestinesi ammazzati, delle distruzioni, dei mutilati, dei senzatetto, della prole incenerita, delle sofferenze inflitte agli “scarafaggi impazziti” e del genocidio al rallentatore assicurato da uranio e fosforo, fame, sete, malattia. Di fronte alla constatazione che questa illimitata ferocia, questa violazione di ogni più vago senso di umanità, non ha minimamente smosso la popolazione colpita dal suo impegno di resistenza e di liberazione, Israele è disarmato. Si sente disarmato. Sente che questi palestinesi, i quali sanno morire mentre gli israeliani no, sono incomprensibili, inafferrabili, invincibili. Il trionfo decretato agli assassini di massa nelle elezioni parrebbe un segno della disperazione. Per quella parte di Israele, per i rinnegati dell’ANP e per i gentiluomini della sinistra mondiale che si rassegnavano alla soluzione dei due stati per due popoli, la sconfitta è particolarmente irrimediabile. Gaza quella soluzione l’ha disintegrata. D’ora in poi lo Stato Unico, binazionale, democratico, pluralista, opzione araba e palestinese storica come dettavano giustizia e realismo, quello Stato che gela il sangue agli attuali propugnatori di Eretz Israel, torna all’ordine del giorno. Già ridotto ad armamentario da soffitta per pochi illusi, cresce nella consapevolezza della parte migliore, minuta ma dinamica della società israeliana, s’imporrà come necessità storica a quella più reazionaria e sciovinista, è opzione favorita da un settore crescente dell’opinione internazionale. Per quanto possano opporsi ancora per lungo tempo le resistenze psicologiche, culturali, di una disonestà intellettuale nemmeno percepita come tale, questo dato di fatto, l’unico realistico, ha la forza della giustizia, della verità e, dunque, della storia vecchia caduta da cavallo e indirizzata su un’altra strada. Come con Paolo di Tarso, ma molto meglio illuminata di lui.
Dopo Gaza, con le infinite e oceaniche manifestazioni di massa contro l’eccidio e i tiranni arabi collusi, seppure duramente represse da regimi pencolanti, gli equilibri di forza nel mondo arabo si sono modificati. Il mare, appena increspato in superficie, è agitato nel profondo. E’ inesorabile, per quanto non immediata, l’apertura dell’atto finale di questi regimi, minati fino al midollo da abissi di classe e povertà smisurata, servilismo di casta, corruzione, rigor mortis civile, arbitrio e ferocia repressiva. Farà la sua parte anche la crisi capitalista che imporrà drastici tagli alle sovvenzioni in moneta e in armi con cui l’imperialismo ha finora puntellato economie zombie. E una parte la farebbe anche Israele se, al di là delle esitazioni della cricca Obama cui i persiani servono da complici nel disfacimento dell’Iraq, dell’Afghanistan, domani forse del Pakistan, i suoi avventuristi più deliranti andassero all’attacco dell’Iran. Interessante sarebbe vedere che cosa quella miccia innescherebbe nel mondo musulmano e nel Sud tout court. Come se la caverebbero intorno al Golfo gli Usa, sia per l’obbedienza dei regimi fantoccio messi in piedi, condizionati e protetti dall’Iran, sia per le rotte del petrolio? Il momento in cui Obama farà andare le automobili e le fabbriche a pannelli solari è ancora lontano ed è credibile solo per i mitomani convinti della “diversità” di questa maschera nera sul cannibale bianco.
Coloro, i più, che insistono a non voler vedere la Palestina e la sua lotta di liberazione, che è di classe, oltrechè nazionale e geopolitica, nel contesto dell’intera nazione araba, fanno torto alla coscienza, alle aspirazioni e al destino di quei popoli. Isolare la Palestina, pur mettendola su un piedistallo, sarà romantico, ma non è di sostegno né ai palestinesi, né alle masse che ovunque stanno schierate con i palestinesi e per una liberazione di tutta la comunità araba. Come si fa a non ricordare l’unità storica di queste genti, sia sotto gli ottomani, sia sotto il colonialismo, sia nella guerra di liberazione, vittoriosa quando unita ha perseguito il progetto delle decolonizzazione. Un’unità di destino che richiama quella bolivariana dell’America Latina. La massa critica per la liberazione del pezzo di mondo tra Oceano Atlantico e Golfo arabo-persico sta nell’unità dei popoli, di classe e antimperialista. Non confiniamo i palestinesi in un particolare che, più che caro, ci è comodo. Non escludiamo, per esempio, gli iracheni che subiscono da sei anni una Gaza alla settimana e non sono domati. L’esempio di queste due resistenze è diventato un sistema arterioso di coscienza e passione in tutto il mondo arabo e ben oltre.
La prospettiva di quel “Nuovo Medio Oriente”, propalato da Condoleezza Rice, con un processo di frantumazione delle comunità nazionali ed entità statali lungo linee etnico-confessionali, per una definitiva presa di controllo e per l’ampio spopolamento (assedi, embarghi, malattie, inedia) della più significativa regione geopolitica ed economica del pianeta, è in frantumi. Regimi arabi, come il Qatar e la Mauritania, arrivano alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, despoti tra i più trucidi, collusi e dipendenti, come Mubaraq e il saudita Abdallah, sono costretti dalla furia popolare ad adottare penosissime misure antisraeliane, come le inchieste e denunce giudiziarie per i crimini israeliani di guerra e contro l’umanità. Il vasto Sudan sta in piedi e accanto alle resistenza, a dispetto delle diffamazioni islamofobiche e dei complotti secessionisti messi in opera, dal Sud al Darfur, dai revanscisti del colonialismo. Dice il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), da sempre sulla linea della connessione strategica, che la questione palestinese è solo l’anello più incandescente della catena che unisce gli arabi e, oltre gli arabi, gli oppressi e repressi del mondo. La catena va agitata da tutti i lati.
Vediamo come si è mossa nel resto del mondo, perché è anche lì che la storia è caduta da cavallo ed è da lì che va gettato lo sguardo sul futuro. La campagna israeliana contro Gaza (che occultava quella simultanea e perenne in Cisgiordania a base di assassinii, espropri, espulsioni, arresti indiscriminati, nuovi insediamenti), doveva essere accompagnata e seguita da un uragano di propaganda dei consueti corifei, quelli scoperti alla Ferrara e quelli coperti alla Ovadia, incaricati di bilanciare i grovigli di bimbetti uccisi a Gaza, passati per le crepe dell’informazione amica, con il rumore assordante del vittimismo ebraico. Fenomenale, a questo proposito, la schizofrenia di ebrei “illuminati” alla Gad Lerner che dedicano trasmissioni intere alla riprovazione del razzismo, delle leggi razziali di Mussolini e di Maroni, e non si avvedono del parallelismo con il razzismo ontologico della loro casa madre. Si doveva dar fiato alla neolingua dell’imperialismo nella quale l’uccisione di migliaia di civili si chiama “autodifesa”, la resistenza è “terrorismo”, i razzi fatti in casa di Hamas sono “armi di distruzione di massa”, le donne e i bambini uccisi nelle incursioni o sono “reclute di Hamas”, o da Hamas sono utilizzati come “scudi umani” (l’unica documentazione di scudo umano sono ragazzi palestinesi legati ai blindati israeliani) e il blocco economico, gli assassinii mirati, gli attacchi ai pescherecci, i 700 posti di blocco, non possono che essere mirati a convincere i palestinesi dei vantaggi della pace sotto la tutela dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”. E’ una neolingua usata da tutti i media e che è andata alla grande a Davos, al consesso della criminalità organizzata capitalista, ed è del resto ripresa con particolare entusiasmo dal partito bifronte che monopolizza la rappresentanza politica in Italia, con strascichi fin negli improvvisamente moltiplicati paginoni “della memoria” nella stampa di sinistra.
Ha sempre funzionato, almeno fin da quando Arafat, il cui curriculum diplomatico pre-guerra infinita dei Bush aveva conservato ai diritti palestinesi un briciolo di considerazione, fu avvelenato e Fatah criminalizzata e bastonata come ora Hamas. Al punto che la cosiddetta società civile aveva finito col distinguere tra giusto e torto, pur quando gli si imprimevano sugli occhi. La truffa dell’11 settembre, poi, aveva messa buona parte del mondo in pesante disagio di fronte all’Islam. Si pensi all’indecenza fascistoide di bandire la preghiera degli immigrati davanti alle nostre chiese. Ci hanno nascosto un film dell’orrore che neanche Kronenberg, raccontandoci che Gaza non sarebbe stata rasa al suolo non fosse stato per quei razzi, anzi “missili”, Kassam (ottomila in otto anni, pari a mezz’ora di bombardamenti su Gaza, nessuno nelle settimane della tregua); che non fosse per il muro che riduce al 12% la Palestina dei palestinesi, ci sarebbero ancora donne e bambini che saltano per aria negli autobus o nei caffè: che se non avessero distrutto i tunnel tra Egitto e Gaza, Hamas avrebbe avuto i mezzi per “distruggere Israele” (se per quelle vene giugulari fossero passati missili e cannoni, e non cibo, maglioni e mattoni, com’è che i guerriglieri continuano a immolarsi da decenni con i soli mitra e qualche bazooka?). E’ un perfetto rovesciamento di causa ed effetto, dimenticando che la storia non iniziò con attentatori suicidi, ma con il furto della Palestina e che, se non ci fosse occupazione, non ci sarebbe decimazione e oppressione di un popolo e, dunque, niente resistenza.
Ma la Storia, a Gaza, è caduta da cavallo. Quattro quinti degli 8 miliardi di abitanti del mondo hanno visto che quella letale potenza d’attacco era stata concepita al momento del ritiro dei coloni da Gaza e preparata sei mesi prima, hanno saputo che la tregua, mille volte proposta da Hamas, anche per durate pluridecennali, è stata violata prima e riviolata dopo da Israele. Hanno collegato i colpi di mano del 1948 (quello che a ferro e fuoco allargò la parte israeliana della spartizione ONU), all’aggressione tripartita all’Egitto nel 1956, all’attacco a freddo del 1967 per prendersi anche la Cisgiordania, il Golan e Gaza, alle invasioni gratuite del Libano e alla rioccupazione della Cisgiordania nel 2004. I bambini frantumati a Gaza, bianchissimi nei loro sudari-fagotto, hanno richiamato le immagini dei bambini bruciati nei loro villaggi all’epoca della spartizione e di quelli cui l’Israele di Rabin spezzava le ossa nella prima Intifada e l’Israele di Sharon fucilava nella seconda. Si è dipanato un filo rosso che nella parte migliore del mondo ha saputo infilzare di netto l’occhio del ciclone della neolingua. Come era successo alla fine dell’era Bush, quando lo psicolabile omaggiato dai colonizzati europei, fu perfino da costoro, come già da tempo dal resto del mondo, sbeffeggiato per l’inettitudine economica e rinnegato per le prevaricazioni belliche. Per la prima volta governi di grandi paesi, come il Venezuela e la Bolivia, ma anche di paesi arabi reazionari e filoamericani come il Qatar e la Mauritania, hanno rotto le relazioni diplomatiche con Israele. Il Dubai, che relazioni non ne ha, ha sbertucciato il potente dominus del Medioriente negando l’ingresso a una tennista israeliana. Nel parlamento del protettorato Usa Kuwait si sono espressi anatemi contro Israele. Merito anche di quella fonte alternativa di informazione che è l’emittente Al Jazeera, appunto del Qatar, a dimostrazione della potenza di una televisione libera, professionale e onesta.
Delle manifestazioni quasi insurrezionali delle masse in tutti i paesi arabi e musulmani abbiamo detto. Anche senza una continuità in superficie, avverte i satrapi al potere dell’inarrestabile crescita della coscienza collettiva, guidata da una porzione crescente dell’intellighenzia, sollecitata dall’Afghanistan e dall’Iraq e ormai lucidissima dopo Gaza. Un colpo terribile alla posizione geostrategica di Israele lo ha portato la Turchia, alleato fondamentale e potente nell’area, quando il premier Ordagan ha stigmatizzato l’olocausto di Gaza e, nell’empireo capitalista di Davos, ha dato sulla voce al presidente israeliano Simon Peres, vecchio strumento del genocidio, Premio Nobel per la pace: “Ecco l’infanticida. Non me la sento di stare in un posto dove c’è un fottuto terrorista sionista” e lo ha piantato stravolto davanti a una platea attonita di gazzettari di casta. L’idea di attraversare lo spazio aereo turco per fare sfracelli in Iran è così svaporata. Infine, a Israele si è sciolto tra le mani il proconsole palestinese, un governo, quello di Abu Mazen, che ormai sta in piedi unicamente perché sorretto dagli affusti forniti dagli Usa. Per quanti sforzi possano fare per rimpannucciare l’ANP, tutti sanno che il rappresentante del popolo palestinese oggi è Hamas, più le sinistre del FPLP e DFLP e i non rinnegati di Fatah con Marwan Barghuti alla testa.
I tiepidi e repressi dubbi che perfino le classi dirigenti occidentali, più spiccatamente il Vaticano, concorrente dell’ebraismo in beni e proselitismo, hanno incominciato a nutrire, sono stati sospinti dalla sollevazione di interi settori e categorie di popolazione che, rincuorati dal crescente dinamismo delle forze di solidarietà con i palestinesi e con i popoli oppressi in generale, hanno assunto posizioni di condanna e di opposizione. Si moltiplicano università e ambiente accademici che proclamano il boicottaggio degli equivalenti israeliani, studenti in Gran Bretagna, Grecia e Francia occupano atenei, fiere vengono precluse a operatori israeliani (a dispetto del “manifesto” che deprecava il boicottaggio della Fiera del Libro a Torino e a Parigi), si moltiplicano i seminari sulla realtà mediorientale, aziende si ritirano dalla collaborazione, agenzie Onu, Croce Rossa, i cui aiuti agli affamati di Gaza vennero incenerite dagli F16, organizzazioni umanitarie, corpi giuridici, trovano spazio nella pubblicistica con le loro denunce dettagliate delle atrocità israeliane, tutti indifferenti al sempre più logoro stereotipo e falso tabù dell’ “antisemitismo”. I greci, sudditi Nato, imitati dai portuali sudafricani, hanno impedito che spedizioni Usa di armi per l’assassinio di massa di Gaza passassero dal porto di Astakos (poi transitate per i compiacenti porti della colonia Italia). In molti paesi sono state comprate impensabili pagine intere dei giornali per denunciare dettagliatamente i crimini israeliani. Perfino il maggiordomo Usa all’ONU, Ban Ki Moon, ha detto tra i frantumi di Gaza: “Mi si è spezzato il cuore”. Lo spietato, criminale uso di armi illegali e mirate alla gente, ha aperto molti più occhi di quanti ne abbia chiuso a Gaza. Ha fatto pensare: “ma questi allora sono anche pronti a buttare l’atomica (che secondo un consigliere alla Difesa israeliano “può raggiungere tutte le grandi città europee”.
Un sondaggio globale della BBC ha trovato che Israele è considerata uno dei due paesi che esercitano la peggiore influenza sul mondo. Tutt’a un tratto ci si è ricordati che Israele è lo Stato, peggio del Sudafrica dell’apartheid, che non adempie a nessuna delle leggi internazionali e nemmeno alle risoluzioni dell’ONU e dei tribunali internazionali e che è l’unico al mondo, con gli Usa, ad aver legalizzato la tortura con tanto di impunità per tutto questo. Quella che si definisce la “comunità internazionale” e che non è che un circolo di mercanti, banchieri, guerrafondai, mafiosi tutti, appare sempre più come “un nome d’arte che gli Usa si mettono quando fanno teatro ” (Eduardo Galeano). Le si para davanti, secondo quanto prevede Naomi Klein, un nuovo movimento globale come quello che pose fine all’apartheid. Un movimento che, insieme al presidente dell’Assemblea dell’ONU e a paesi progressisti propugna sanzioni, boicottaggio, disinvestimento e isolamento dello Stato sionista e di chi lo frequenta e vi si associa. Un movimento che si mobilita contro gli accordi economici e militari tra UE e Israele in continua espansione.
Quando mai prima s’era visto tutto questo, quando ogni pulizia etnica, occupazione, massacro, distruzione, devastazione, soperchieria, barbarie, veniva definita moralmente giusta e di “autodifesa dai terroristi” ? Si sorvola con sempre più disinvoltura sul fatto che Unione Europea, Canada e gli Usa elencano quasi tutti i movimenti di liberazione nazionale nella categoria delle “organizzazioni terroristiche”, puntando a criminalizzare ogni forma di resistenza e a intimidire e poi neutralizzare i governi, le forze e comunità che sostengono i palestinesi e i i popoli in lotta. Particolarmente efficace la voce degli ebrei dissidenti, antisionisti, antioccupazione, capeggiati da nomi prestigiosi come Pappe, Chomsky, Warshawsky che, meno in Israele nonostante il grande coraggio dei refusenik, ma in grande crescita e vigore nel mondo occidentale, assumono posizioni non più meramente difensive e riduttrici, ma di aperta dissociazione, condanna e, sempre più, di appoggio all’inevitabile Stato unico. Una rottura nella solidarietà, fin qui quasi incondizionata, della diaspora che apre spazi sottratti alla già invincibile lobby ebraica. Il rapporto di forze, al di là dei tank e dei continui attacchi israeliani, sta lentamente mutando a favore dei palestinesi. E questo fa dei palestinesi e di tutti i combattenti antimperialisti l’avanguardia de deboli e oppressi.
Un’ attenzione a parte meritano le procedure giudiziarie avviate e in fieri che hanno per capo d’accusa i crimini contro l’umanità e di guerra commessi da Israele a Gaza. L’imputazione condivisa da magistrati e tribunali è quella sintetizzata in un’agghiacciante documento pubblicato su The Lancet, la più prestigiosa rivista medica del mondo. Parte dai 1.350 direttamente uccisi a Gaza, con tanti altri a venire per contaminazioni o mutilazioni, di cui il 60% bambini, dai quasi 6.000 gravemente feriti, di cui il 40% bambini, contro zero vittime di razzi Kassam nell’anno prima e 28 negli otto anni precedenti. Nel Sudafrica dell’apartheid l’atrocità maggiore fu l’eccidio di Sharpeville nel 1960 in cui la polizia sudafricana uccise 69 manifestanti neri. Alle vittime dell’aggressione il giornale aggiunge dati derivanti dall’occupazione e dall’assedio economico e sanitario. A queste cause va attribuita la morte annuale di 3000 bambini sotto i 5 anni per un totale di 4.286 morti palestinesi evitabili all’anno, 35.360 dal settembre 2000 in aggiunta ai 6.200 direttamente assassinati dalle forze israeliane. The Lancet guarda oltre. Tra il 1967 e il 2009 sono morti per cause legate all’occupazione 300mila palestinesi, mentre i morti ammazzati sono stati circa 10mila. Alle spalle di costoro ci sono i 35mila prigionieri di guerra arabi del 1967 giustiziati da Israele, a fianco gli 11mila palestinesi detenuti senza giusta causa e sottoposti a tortura. E mettendo in campo questa ininterrotta pulizia etnica, questa pervicace violazione di ogni diritto, queste punizioni collettive culminate con la carneficina di Gaza, che molti attori del sistema giuridico mondiale hanno giudicato Israele uno Stato fuorilegge, da espellere dall’ONU, e i suoi delitti meritevoli di un tribunale come quello di Norimberga contro i gerarchi nazisti. Procuratori in molti paesi che posseggono giurisdizione sui crimini contro l’umanità compiuti ovunque, come Spagna, Belgio, Inghilterra, Turchia, hanno avviato indagini e imputazioni. Lo ha fatto perfino il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja aprendo un fascicolo su crimini israeliani denunciati da centinaia di proponenti. Girano in rete elenchi di facce e biografie dei maggiori responsabili politici e militari israeliani da sottoporre a giudizio. Tanto preoccupa la cose i governanti sionisti da averli mossi a mettere in atto un apparato difensivo per i loro militari, a sconsigliarli dall’ avventurarsi in paesi con quella giurisdizione universale, a occultarne tardivamente l’identità, fino a farli apparire con le facce oscurate in televisione. Diversi alti ufficiali hanno dovuto cancellare le loro visite a paesi europei perché già indagati. E a rischio d’arresto. L’impunità incrinata è la ferita più grave inflitta da Gaza, con il suo sacrificio, a Israele.
Sono cose che un mese prima di Gaza sarebbero parse inconcepibili quanto l’assalto dei giacobini a chiese e monasteri. Fu una delle volte che la Storia cadde da cavallo e prese un’altra strada.
Forse il nuovo quadro geopolitico, culturale, strategico si vede meglio qui che da Gaza. Dove la protervia israeliana continua a pensare di potersi permettere di tutto. Chi vuol perdere, iddio lo acceca. Qui ci si misura con un assedio che non cessa, con il continuo rischio di incentivare l’ossessione omicida dei generali israeliani, con centinaia di corpi che si sbriciolano per effetto del fosforo, dell’uranio, delle bombe Dime che ti lasciano intatto fuori, sventrato dentro e incurabile, con grandi famiglie ridotte a un paio di sopravvissuti, con madri senza figli, con figli senza padri, con tende e anfratti ricavati tra le macerie, con gli ospedali che non funzionano più, con malattie che a Gaza non si possono curare, ma che si è impediti dal trattare fuori da Gaza. In questo Auschwitz levantino ti si nega ogni mattone che costruisce l’edificio vita. Ma a Gaza si sa anche che Israele ha fallito, sia nel rovesciare l’arcinemico, sia nel convincere la popolazione alla resa. E si percepisce anche che l’offensiva, per come ha indebolito i collaborazionisti dell’ANP, Autorità Nazionale Palestinese, ha rinsaldato l’unità dei palestinesi nei territori occupati e in Israele e anche quella con le grandi masse arabe e del Sud del mondo. La regione è in ebollizione è non tornerà facilmente al prima di Gaza.
Il bicchiere può sempre essere visto anche mezzo vuoto. La potenza militare di Israele resta integra e rifornita all’infinito dagli Usa del nuovo garante Obama. Altre incursioni e stragi si abbatteranno su Gaza. La metastasi colonialista si allarga incessantemente in Cisgiordania. La Nato, reinventata con D’Alema come strumento di rapina e sottomissione della “comunità internazionale”, si fa tutrice degli interessi USraeliani anche a ridosso di Gaza ed è pronta ad affiancare altre guerre di conquista imperialiste, in Asia, in Medio Oriente, in Africa. L’Italia, meretrice senza inibizioni e senza limiti opposti dalle sinistre, con nuovi comandi e forze di proiezione continentale per l’Africa, il Medio Oriente e l’Est stabiliti nelle nostre città e nei nostri porti, si fa catapulta di guerre verso popoli che, da amici, potrebbero salvarci la pelle e la civiltà. Se ne fanno garanti quelli che pretendono di essere un governo dello Stato, come quelli che se ne pretendono l’opposizione. E’ in vista uno sconquasso che costerà ancora molto all’umanità nelle spire della piovra morente. Ma è dal letame che nascono i fiori, come diceva De Andrè, e negli sconquassi si aprono i varchi verso il cielo.
Non sarà più facile credere che Israele, questo Israele, potrà integrarsi in un mondo arabo che è fatto da oltre 300 milioni di persone e di poche centinaia di notabili. Eppure in quel mondo integrarsi dovrà. Si potranno contare sulle punta delle dita i cittadini arabi che si aspettano dagli Usa democrazia e benessere. E questo gli costa il cambio del paradigma e del metodo. Sicuramente noi potremmo agevolare quel cambio: boicottaggio (il codice a barre 729, segno di prodotto israeliano), disinvestimento, sanzioni, procedimenti penali e tantissima informazione. E prima ancora il rifiuto della neolingua dell’imperialismo, a partire dalla criminalizzazione degli agnelli sacrificali con il teorema del terrorismo. Se anche da noi si capirà, come lo si è capito nel mondo non lobotomizzato, cosa è successo l’11 settembre a New York e a Washington, chi davvero è terrorista, sarà molto dura per Israele e per il suo padrino nordamericano accreditarsi ancora come fronte della civiltà contro il terrorismo. E la nuova generazione partorita dalla Storia caduta da cavallo avrà davanti a sé una strada più libera. Nessuno potrà più chiamare “terrorista” il combattente per la libertà, sua e dell’uomo. Di resistenza si vince.
mercoledì 11 febbraio 2009
BATTAGLIONI DELLA VITA, BATTAGLIONI DELLA MORTE (inno fascista)
Non è da come nasci, ma da come muori che si capisce di che popolo sei (Alce Nero, 1980)
Non si può far morire di fame e di sete una persona. Così, nel gennaio-febbraio 2009, mentre a Gaza veniva liquidata una popolazione a forza di fame, sete e un’apocalisse di guerra, il premier Berlusconi e, all’unisono, tutta la banda di paese. Così, su Eluana Englaro, in coma da 17 anni, caso paradigmatico del sadismo clerical-capitalista del XXI secolo nei confronti della vita, il signor Ratzinger, prelati assortiti, ma tutti vibranti di sacro furore vitale (ma non era meglio il paradiso?), teodem di fureria e un buon 40% di cittadini sodomofili che amano farsi dettare nascita, malattia, sofferenza, connubi, coiti, generazione, morte, da un truce vegliardo casto e Hitlerjunge mai pentito. Trattasi di creare, a propria immagine e somiglianza (non bastava il disastro combinato nell’Eden?), una zombie: una ragazza morta 17 anni fa e ridotta dalla perversione etica cristiana a fagotto inerte e informe, non deve morire di fame e di sete. Mica è un terrorista di tre anni di Gaza. Mica stava nel mucchio di scolaretti assembrati sul piazzale per il cambio di turno e che andava disintegrato con i missili per la gravissima colpa di alimentare la continuità di un popolo di troppo. Uno tsunami di fervori e anatemi contro la morte di una morta come indecente riparo al silenzio e alla complicità per la morte dei vivi.
Potenze necrogene e necrocrate da quando esistono, per lo stupro fisico e il dopostupro economico dell’Iraq, prima, e poi di Gaza, sono state acclamate come modelli di statologia per il 21° secolo dalle classi dirigenti di tutto il mondo. In perfetta sintonia, già armati dallo spunto dell’11 settembre, in Italia hanno scatenato il delirio della sicurezza. Come si promuove la psicosi e quindi il diktat della sicurezza? Carburandolo ovviamente con quel culto della morte che, scientificamente, va da staminali e aborti ai roghi dei senza dimora, dalle fucilazioni, fuori e dentro servizio, di importuni, sospetti, o spaventati, allo sfondamento del torace di incappati in pattuglie libidinose, dalla soppressione di spinellari e irregolari vari in carcere, ai ragazzotti perbene che giustiziano chi gli nega una sigaretta, dai quartetti del liceo che spezzano una coetanea per farsela, ai crani spaccati di capannelli eversivi per loro stessa natura, dalle donne ammazzate a pietrate, senza neanche essere sauditi, agli stermini d’appartamento. Dicono che Israele avrebbe risposto ai razzi di latta di Hamas, legittimi quanto inadeguati contro un occupante belligerante, sorvolando leggiadri sul fatto che fu Israele, il 4 novembre 2008, ad cancellare con missili la tregua e sei palestinesi. Per la cosca dirigente italiana i razzi Kassam, sono lo stupro fatto da un rumeno, o il pestaggio di un compagno di scuola diffuso su YouTube. Ai razzi di chi dovrebbe starsene buono mentre se ne liquida la presenza sulla Terra si risponde con il rapporto di 100 a 1 (13 vittime israeliane, 1360, li per lì, quelle palestinesi), dando una lezione di modernità tecnologica e morale agli autori del 10 a 1 delle Fosse Ardeatine.
In Italia è bastato uno stupro per trasformare chi dovrebbe starsene buono a casa sua a morire di fame, epidemie, guerre imperialiste e criptoimperialiste in elemento criminale collettivo, determinato a disintegrare la nostra civiltà. Dopo la sospensione dell’assalto di dicembre 2008-gennaio 2009, è piovuto qualche altro razzo sui coloni di Sderot. Il legittimo, democraticamente eletto governo della Palestina (ricordiamoci che, nel 2006, Hamas aveva vinto le elezioni generali non solo a Gaza), che sempre ha rivendicato il proprio diritto alla difesa, ha smentito e documentato che quei razzi fossero della Resistenza. Il falso ha permesso ai mostri di guerra israeliani di prolungare un po' l'eccidio e guadagnarsi qualche altro punto in vista delle elezioni del 10 febbraio 2009. Da noi, se non sono (e sono convinto che lo sono) servizi occulti a fomentare reati particolarmente scioccanti e dunque produttori di legiferazione repressiva, ci pensa la stampa a trasformare episodi di routine in casus belli , meritevoli di un’ operazione Cast Lead alla Veltrusconi, magari chiamata, ancora una volta (ci siamo abituati dalla Legge Reale) “Pacchetto Sicurezza” . La tecnica è sempre quella: Torri Gemelle e “19 dirottatori arabi” introvabili da vivi e da morti. Ricordate i Libano? Spedirono una pattuglia israeliana oltre le linee dei prontissimi Hezbollah sapendo di sacrificarla. Due degli infiltrati in Libano furono catturati. Israele e il mondo intero strepitarono di un “sequestro” operato dai “terroristi” libanesi in terra d’Israele. Niente scrupoli, né nella fregatura inflitta ai propri ignari soldati, né nella menzogna. Né per i tremila sacrificati nelle Torri. Ma, poi, che scrupoli volete che abbia chi titola un’operazione di genocidio e infanticidio col titolo, Cast Lead, piombo fuso, tratto con cinismo satanico da una canzoncina ebraica per bambini?
Procedendo nel “culto della vita” nostrano, aggiungiamo tre uccisi e mezzo sul lavoro al giorno, i morti di fame e di freddo sulle panchine, quasi diecimila stritolati dalle loro sicure auto sulle loro sicure strade, la falcidie da inquinamento e farmaceutica, qualche migliaio di fuggiaschi assetati, affamati e perseguitati, tutti per antichi e attuali meriti coloniali, mandati a dissetarsi con l’acqua di mare e a socializzare con i pesci, e non abbiamo finito. I giornali, telegiornali, nani e ballerine del bordello vespaiolo, si sono gonfiati di sollievo perché questo panorama di orrori, perfettamente istigati e poi pompati dallo Zeitgeist di un capitalismo allucinato dalla sua catastrofe, statisticamente in linea con i decenni e secoli trascorsi, ma promosso a emergenza senza precedenti, consentiva di rinchiudere nel lontano deposito dei ferrivecchi i pur diluiti e adulterati servizi da Gaza. Anzi, da fuori dai confini di Gaza, rigorosamente chiusi all’informazione dall’ unica democrazia del Medio Oriente. Non si era già fatto così con l’Iraq, prima masticato e sputato dalle puttane giornalistiche embedded, poi svaporato con i suoi quisling-ganster, i suoi due milioni di trucidati e 5 milioni di profughi, il totale sfascio civile, sociale, culturale, insomma quel vero e proprio nazionicidio, nelle rosee lontananze dei futuri libri di storia imperiale sulla democratizzazione del paese violentato dal “mostro Saddam”?
Si tratta di culto della morte. Dalle nostre parti lo travestiamo e sublimiamo in culto della sicurezza e, quindi, della vita. E, porca miseria, crepi la libertà, la dignità, il diritto, l’etica, la compassione, se questa malvagio padre non vuole far manovrare Eluana da morta vivente, per la maggior gloria di biopolitici e biopontefici che, se non avessero a disposizione la nostra giugulare, saprebbero di disfarsi in polvere alla prima luce del giorno. A Gaza, in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, in Somalia, a Haiti, si può invece far di tutto, mietere vite come fossero fieno, affogare nel sangue mezzo mondo. Ma, ancora una volta, lo si fa da ministri del culto della sicurezza e, dunque, da apostoli del culto della vita.
Le due cose sono collegate. Una istruisce e alimenta l’altra. Ma questo non traspare neanche da una riga di tutti coloro che hanno scritto o parlato del degrado sociale, dell’iperbole criminale a cui è giunta la congiuntura nazionale. Il karma è costante, assordante, immutabile. Quando adolescenti bruciano un disoccupato indiano, o un pistolero in divisa fa al tiro al bersaglio su tifosi, un padrone ammazza e butta nel fosso il “suo” immigrato, l’elegante giaculatoria dei sociopsicologi da osteria suona “disagio”, “noia”, “sfascio famigliare”, “permissivismo” (a destra), “consumismo”, “disgregazione urbana”, “abbandono periferico”, “ mancanza di luoghi di aggregazione” (a sinistra). Termine demodé è “alienazione”, pur segnalato dal Che Guevara, da Pasolini e da alcuni neomarxisti tedeschi, come strumento di dominio e sfruttamento al pari dell’esproprio del propri lavoro. Ma “alienazione” è la parola. Alienazione è quando qualcosa ti fa rovesciare nel tuo contrario. Quando qualcuno inietta in Jekill un Dr. Hyde. Solo che, diversamente da quanto ti vorrebbe attribuire il determinismo razzista dei genetisti Usa, tradotto in vulgata del senso comune, quel Hyde non è tutta fatica tua. Te lo allevano dentro.
Il discorso sarebbe lungo. Ma partiamo da un punto avanzato. Si comincia per gioco: videogiochi, film e teleserie, con più ammazzati o pestati che fotogrammi, ti insegnano come divertirti manovrando pupazzetti e macchinari, il meglio della nostra civiltà tecnologica bianca, giudaico-cristiana, per squartare più “terroristi”, vecchiette, o devianti possibili. Più fai pulp, più fai punti. L’educazione sentimentale è quella. E poi dici “il bullismo”. Nel successivo si passa a fare quello che non si voleva fosse fatto al cadavere mesmerico di Eluana: si chiudono interi popoli in un recinto e li si ammorbidiscono ben bene negandogli cibo, acqua potabile, medicine, medici, lavoro, dignità. Quando si pensa che lo stato di inedia assoluta sia raggiunto, ci si avventa sopra per estirpare al maggior numero possibile la vita e ai restanti la capacità, la voglia, la possibilità di vivere. Almeno non in quel posto.
A questo punto la scuola quadri, con aule in ogni angolo del mondo “civilizzato”, può licenziare i suoi allievi. Quale barriera etica, politica, sociale si può frapporre tra, da un lato, chi è cresciuto e vissuto in un mondo, sostenuto e sacralizzato da ogni data autorità e dal senso comune, dove stupri, ammazzamenti, efferatezze di ogni genere, crimini contro l’umanità sono normalità, e, dall'altro, il tuo personale protagonismo in tale normalità? Ma come, si avvolge nel caldo giubbotto antiproiettile della “sicurezza”, antiterroristica ovviamente, chi a Gaza giustizia a bruciapelo bambini, o incenerisce col fosforo le loro madri, e poi non si vuole ammettere per sicurezza quando uno toglie di mezzo quella zecca di musulmano così efficacemente esecrata dal Corriere e dai nostri ministri degli Interni, oppure quando un quartiere intero napoletano si “autodifende” incendiando una comunità di rom? Lo fanno gli israeliani a Gaza, no? E tutti li comprendono, giustificano. La ragione è quella dei vincitori. Come lo è l'olocausto. Ché, vogliamo fare ai due pesi e due misure? Solo perché lì la chiamano “Forza di Difesa Israeliana” e qui “branco”? Che differenza qualitativa c’è? E, allora, come si fa a non finire in massa preda della famosa “alienazione”? E se provassimo a processare i torturatori e boia dei popoli, a bandire lo splatter elettronico o filmato per apologia di reato e istigazione a delinquere, a coprire di guano autorità che urgono di essere “cattivi” con gli immigrati, a raccontare la storia vera di chi infligge e di chi subisce? Se ci ricordassimo ogni giorno che capi di Stato, governi e interi parlamenti hanno disfatto l’articolo 11 della Costituzione, quello che bandisce la guerra e l’hanno fatto scomparire sotto i flutti di sangue di “terroristi”, come fossimo in una Gaza qualsiasi? Non pensate che allora quell’ “alienazione” si dissolverebbe in coscienza e che la sicurezza cesserebbe di essere la mimetizzazione della violenza di Stato?
Durante tutta la durata dell’ambaradan attorno a Gaza, dove quei terroristi integralisti di Hamas continuavano a minacciare con petardi i bravi coloni di Israele, mentre l’attenzione mondiale era concentrata sulle misure, necessarie per quanto secondo D’Alema “un po’ sproporzionate”, di “autodifesa” israeliane, gli insediamenti coloniali in Cisgiordania si moltiplicavano a ritmo accelerato. Mentre li si mimetizzava con negoziati di pace, autentici come il progressismo di Obama o l’opposizione di Veltroni, e con una tregua di 18 mesi, nel solo 2008 Israele aumenta del 60% insediamenti che rendono per sempre una fanfaluca lo pseudostaterello a cantoni palestinese. Questo, alla faccia dei famigerati accordi di Oslo e di tutti i successivi che tali insediamenti proibivano. Meglio che dai teppisti delle colonie, che perlopiù spaccano solo la testa ai contadini palestinesi, o dei militari di Tsahal che sparano a qualche manifestante, la sicurezza del colonizzatore era assicurata dai pretoriani, armati dal carnefice, del presidente ANP Abu Mazen, rappresentante del grumo ricco e corrotto del disfacimento palestinese, ma fiduciario di coloro che tale disfacimento perseguono.
Assaltando una striscia grande come mezza provincia di Roma, con la potenza del quarto e più impunito esercito del mondo, Israele ha ucciso sulle prime 1.360 palestinesi, all’85% civili inermi, di cui oltre 400 bambini, con molti altri in arrivo successivamente, estratti da sotto le macerie o mangiati dalle mutilazioni, dal fosforo o dall’uranio. A queste armi proibite e più criminali ancora di tutte le altre, ha aggiunto un gingillo perfettamente in linea con quanto sugli arabi si insegna agli scolaretti di Sion: freccette d’acciaio che schizzano a decine da un ordigno e non hanno altro scopo che quello di perforare carni di esseri umani. Avevo visto qualcosa di analogamente perfido a Hebron, la città cisgiordana dove imperversa da anni mezzo migliaio di coloni fascisti arrivati dagli Usa. Si chiamavano “farfalle” ed erano proiettili con sulla punta un’elica rotante che aveva il compito di tritare i corpi nei quali penetrava.
Dalle ventimila case distrutte o devastate sono scampati circa 100mila persone, in buona parte finite in nuove tendopoli, a memoria di quelle nelle quali i gazaiani, già profughi delle espulsioni della nakba, si erano accasati nel 1948. A volte ritornano. In osservanza rigorosa del diritto di guerra e delle convenzioni internazionali, Israele ha poi decostruito con le bombe l’intero assetto del territorio, amministrativo, infrastrutturale, agricolo, industriale, distributivo. Per ergersi a massimo custode della sicurezza, Israele ha perfezionato l’olocausto e lo sberleffo a un’ umanità non normalizzata massacrando decine di civili rifugiatisi delle sedi dell’ONU, colpendo scuole, moschee e ospedali, bloccando ambulanze e uccidendo sanitari che correvano in soccorso a feriti, chiudendo intere famiglie in case poi rase al suolo, mitragliando dai carri torme di civili in fuga con bandiere bianche, fornendo a medici egiziani decine di bimbetti con pallottole nel cranio o nel corpo, sparate da distanza ravvicinata. Nessun apparato della Germania nazista era mai riuscito a eseguire una così integrale punizione collettiva, crimine di guerra, crimine contro l’umanità. E chi si affacciava con intenti di soccorso umanitario al largo di Gaza, all’interno delle acque territoriali palestinesi, come i battelli umanitari del “Free Gaza Movement”, veniva aggredito, sequestrato e dirottato. Una menzione molto speciale merita qui il nostro compagno Vittorio Arrigoni che, prima incarcerato e maltrattato dagli israeliani, poi liberato, ha avuto il coraggio e la nobiltà di tornare a Gaza e di farsi l’intero genocidio correndo con le ambulanze a raccattare morti e soccorrere feriti. La sua voce, ripresa dal “manifesto” per tutta la durata della strage, insieme ad Al Jazeera (per chi ha il satellite e sa l’inglese), è stata per l’informazione quello che i tunnel tra Gaza ed Egitto sono per la sopravvivenza palestinese.
Dopo aver ridotto Gaza a un deserto orlato di filo spinato, Israele e il suo alleato egiziano hanno continuato il blocco della morte. L’Egitto del tirannico satrapo Mubaraq, vacillante come gli altri regimi vassalli degli Usa per i sommovimenti di massa innescati da Gaza, ha superato se stesso. Chiudendo dentro Gaza bombardati i "fratelli arabi", feriti, morti di fame, macerie, ha contribuito a realizzare il sogno del Capo di Stato Maggiore israeliano, Rafael Eitan, quando vaticinò “palestinesi in fuga, impazziti come scarafaggi chiusi in una bottiglia”. Spiragli nell’embargo, con qualche carico di farina o qualche sacca di plasma, hanno il sapiente scopo di prolungare l’agonia. Troppo comodo morire con un proiettile in faccia, o sminuzzati per successive amputazioni da necrosi inarrestabili. Vista l’aria che tira, impregnata di veleni chimici sparsi dall’aggressore, ai palestinesi di Gaza è negato anche il respiro. A Jenin, nel 2002, era stato riservato lo stesso destino. Del resto, è una costante dal 1948. Una costante che da sempre cammina su tre gambe e tutto travolge, comprese le truppe di complemento della “sinistra”. Una gamba è la favola del “ritorno”, che è ritorno dove i "ritornanti" non sono mai stati, giacchè la deportazione sotto l’imperatore Tito è una favola e coloro che si sono aggiunti ai pochi arabi di Palestina, del Medio Oriente e di Spagna, convertitisi nei millenni all’ebraismo, sono genti europee e caucasiche che i più aggiornati studi storici dimostrano provenienti dal regno dei Khazari nelle regioni tra Caspio e Mar Nero. Si convertirono all’ebraismo intorno al Mille e dilagarono poi verso occidente. L’altra gamba, altrettanto fasulla, è “l’antisemitismo” , parolina magica che rende immuni da colpa i delitti compiuti contro i veri semiti, dagli 8 milioni di palestinesi ai 300 e passa milioni di arabi. La terza gamba è “la guerra al terrorismo”, una truffa galattica con cui Usa e alleati imperialisti in seconda perseguono il controllo di giacimenti e oleodotti, l’assalto alle libertà democratiche, i profitti del complesso militar-industriale, la creazione dello Stato-mondo di polizia, l’espansione territoriale di Israele, nel quadro della progettata frantumazione delle nazioni da ricolonizzare.
Si fustiga con sdegno chi osa l’inosabile: l’accostamento tra sionismo e nazismo. Per quanto i più frequenti a formulare questi confronti siano propri opinionisti e storici ebrei. Ho vissuto la vicenda israelopalestinese fin dal 1967, Guerra dei Sei Giorni, e poi nelle guerre e stragi successive, fino alle invasioni del Libano, fino a Sabra e Shatila, fino alla spoliazione progressiva di Gaza e della Cisgiordania. Un tale accumulo di nequizie, di vessazioni, di ammazzamenti, di delitti di ogni genere da far impallidire non Gengis Khan, poveretto, ma la sua fama. Non Nerone, ma il ritratto che ne hanno dipinto storici patrizi e cristiani. Non Saddam, ma la sua gigantesca deformazione a opera di mille Magdi Allam. Fu dall’aver visto trasformare in "autodifesa" l’attacco ai paesi arabi e l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, quanto restava della Palestina dopo i pogrom israeliani, che ho iniziato a capire come nella mia professione di giornalista coloro che obbedivano alla verità e potevano esprimerla fossero rari quanto la particella di sodio in una certa acqua minerale. Ma neanche quella particella aveva libertà totale d’espressione. Se i villaggi rasi al suolo dai tank israeliani sui quali viaggiavo, battendo sulla “Lettera 22” per “Paese Sera” quanto poi sarebbe stato censurato dal commando israeliano, continuavano a farmi venire in mente S. Anna di Stazzema, o Marzabotto, questo no, questo proprio non potevo scriverlo neanch’io. E’ grazie a questo editore, forse l’unico in Italia, che oggi mi posso permettere di riflettere su come Hitler avesse vinto le sue prime e uniche elezioni grazie ai meriti securitari acquisiti ramazzando un po’ di comunisti e socialisti. I capipartito israeliani, etilizzati da cannibalismo etnico, condiviso da quasi l’intera comunità nazionale, hanno fatto la regata elettorale utilizzando per remi cadaveri palestinesi e appendendo bambini all’albero maestro. In piccolo, i nostrani bifronti bipartisan corrono al voto carburati da donne stuprate, famiglie sterminate da famigliari, migranti che osano pregare sui sagrati, giovani che bevono fuori orario e sui gradini. Israele non è poi così lontana.
Hitler smise poi del tutto di fare elezioni. Israele, che è democratica, no. All’idea di cosa potrà succedere ai palestinesi in vista delle prossime elezioni israeliane si ghiaccia il cuore. Ma forse, quella volta, sarà diverso. Perché a Gaza la storia è caduta dal cavallo. Come San Paolo. Lo vedremo alla fine di questo libro.
domenica 8 febbraio 2009
LA PAROLA A ILAN PAPPE
Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.
(Golda Meir, Premier israeliano, 1969)
Israele doveva sfruttare la repressione delle dimostrazioni in Cina (nei giorni di Tienanmen) quando l’attenzione del mondo era concentrata su quel paese, per procedere all’espulsione di massa degli arabi dai territori.
(Benyamin Netanyahu, favorito candidato premier per le elezioni israeliani del 10/2/09)
La parola a Ilan Pappe
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La sera stessa venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aeree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e, infine, collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di far ritorno… Questo progetto definitivo dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene… l’obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina…
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano e la sua sistematica attuazione fu un caso lampante di un’operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità.
Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala… Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna dalla terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata e ancora oggi non è riconosciuta come un fatto storico e tanto meno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente, sia moralmente.
La pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerati criminali da portare davanti a tribunali speciali…
Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani,
(Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Editore)
Breve nota storica
Il lavoro di Ilan Pappe, uno dei “Nuovi Storici” israeliani, costretto a lasciare la cattedra di Haifa e a trasferirsi all’Università di Exeter, è esploso come una bomba in un’opinione pubblica israeliana e mondiale, fino allora in massima parte intossicata ed accecata dalla propaganda di regime israeliana e dei governi e media a tale regime allineati.
La citazione riportata si riferisce al peccato d’origine, pervicamente ignorato o occultato, nella storia del confronto arabo-israeliano e della questione palestinese. Un’invasione-occupazione sostituita, al meglio, dalla mistificazione della “contesta di due popoli per la stessa terra” e, al peggio, dalla “guerra della democrazia contro il terrorismo”.
Ma il 1948 non fu che l’inizio di una della più terribili storie di persecuzione e liquidazione, svoltasi nella totale impunità dei responsabili e nella complicità della sedicente “comunità internazionale”. L’ONU, nel 1947, aveva indebitamente spartito la Palestina concedendo alla minoranza di invasori (europei, asiatici e statunitensi e in minima parte mediorientali e africani) ben il 52% del territorio. Già pochi mesi dopo, espulsa oltre metà della popolazione autoctona, Israele si era impadronita con la forza complessivamente del 78%. Nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, Israele si prese il resto della Palestina che iniziò a colonizzare con propri insediamenti, popolati oggi da oltre mezzo milione di coloni a dominio degli ultimi frammenti separati di presenza palestinese. Nel 1978 e nel 1982 Israele, per accaparrarsi oltre a tutte le acque palestinesi anche quelle del Litani in Libano, invase ripetutamente il paese vicino uccidendo migliaia di civili e compiendo, con Ariel Sharon e i suoi alleati falangisti, la strage dei 3000 civili a Sabra e Shatila. Dal Libano, le truppe israeliane furono cacciate dai combattenti di Hezbollah nel 2000. Una seconda invasione, nel 2006, ebbe lo steso risultato. Pagando la propria resistenza con l’uccisione di oltre 1.300 concittadini libanesi, Hezbollah e i suoi alleati respinsero l’attacco nel giro di poco più di un mese.
Gaza, sgomberata da Sharon dei suoi 6000 coloni per poter meglio disporre militarmente della Striscia, viene assaltata il 27 dicembre 2008 dopo un blocco di 18 mesi che aveva ridotto il milione e mezzo di abitanti alla fame, al collasso economico, alla neutralizzazione di tutte le strutture vitali. Nello stesso periodo assassinii mirati e bombardamenti provocano la morte di centinaia di civili e dirigenti. Proseguono anche le incursioni, le distruzioni, le uccisioni e gli arresti in Cisgiordania dove la polizia del presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) da man forte all’occupante. 11.000 sono nel 2009 i palestinesi detenuti e spesso torturati (come denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali) nelle carceri israeliane, perlopiù senza processo e senza imputazioni. A Gaza, una tregua di tre mesi, stabilita nell’autunno 2008 sotto auspici internazionali, viene violata unilateralmente da Israele con la continuazione del blocco (atto di guerra per la Convenzione di Ginevra) e con un’incursione il 4 novembre che provoca la morte di sei cittadini palestinesi. Solo a questo punto Hamas, il legittimo governo della Palestina occupata e, in quanto occupata, autorizzata dalla Carta delle Nazioni Unite a resistere con tutti i mezzi, risponde con i razzi artigianali Kassam. L’impari scambio di ostilità risulta in 3 vittime israeliane e in quasi 7000 abitanti di Gaza uccisi o feriti. Quasi all’unanimità governi, forze politiche “democratiche” e media, confortati dal consenso del quisling palestinese Abu Mazen, le cui milizie sono addestrate, finanziate e armate dagli Usa, attribuiscono ad Hamas l’intera responsabilità della crisi e del successivo genocidio.
Intanto cinque milioni di palestinesi in esilio attendono il ritorno alle loro case sancito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. 8 milioni di palestinesi chiedono, dopo sessant’anni, che le leggi universali del diritto umanitario e dell’autodeterminazione dei popoli valgano anche per loro. Forse il martirio di Gaza ha avvicinato quel momento. Contro ogni aspettativa israeliana, l’enormità dei crimini perpetrati, che si proponevano come modello per il dominio sui deboli in tutto il mondo, può rappresentare una svolta storica nello scontro tra verità e menzogna, tra ragione e torto, tra giustizia e ingiustizia, tra passato e futuro. In Palestina e non solo.
(Benyamin Netanyahu, favorito candidato premier per le elezioni israeliani del 10/2/09)
La parola a Ilan Pappe
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La sera stessa venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aeree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e, infine, collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di far ritorno… Questo progetto definitivo dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene… l’obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina…
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano e la sua sistematica attuazione fu un caso lampante di un’operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità.
Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala… Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna dalla terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata e ancora oggi non è riconosciuta come un fatto storico e tanto meno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente, sia moralmente.
La pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerati criminali da portare davanti a tribunali speciali…
Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani,
(Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Editore)
Breve nota storica
Il lavoro di Ilan Pappe, uno dei “Nuovi Storici” israeliani, costretto a lasciare la cattedra di Haifa e a trasferirsi all’Università di Exeter, è esploso come una bomba in un’opinione pubblica israeliana e mondiale, fino allora in massima parte intossicata ed accecata dalla propaganda di regime israeliana e dei governi e media a tale regime allineati.
La citazione riportata si riferisce al peccato d’origine, pervicamente ignorato o occultato, nella storia del confronto arabo-israeliano e della questione palestinese. Un’invasione-occupazione sostituita, al meglio, dalla mistificazione della “contesta di due popoli per la stessa terra” e, al peggio, dalla “guerra della democrazia contro il terrorismo”.
Ma il 1948 non fu che l’inizio di una della più terribili storie di persecuzione e liquidazione, svoltasi nella totale impunità dei responsabili e nella complicità della sedicente “comunità internazionale”. L’ONU, nel 1947, aveva indebitamente spartito la Palestina concedendo alla minoranza di invasori (europei, asiatici e statunitensi e in minima parte mediorientali e africani) ben il 52% del territorio. Già pochi mesi dopo, espulsa oltre metà della popolazione autoctona, Israele si era impadronita con la forza complessivamente del 78%. Nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, Israele si prese il resto della Palestina che iniziò a colonizzare con propri insediamenti, popolati oggi da oltre mezzo milione di coloni a dominio degli ultimi frammenti separati di presenza palestinese. Nel 1978 e nel 1982 Israele, per accaparrarsi oltre a tutte le acque palestinesi anche quelle del Litani in Libano, invase ripetutamente il paese vicino uccidendo migliaia di civili e compiendo, con Ariel Sharon e i suoi alleati falangisti, la strage dei 3000 civili a Sabra e Shatila. Dal Libano, le truppe israeliane furono cacciate dai combattenti di Hezbollah nel 2000. Una seconda invasione, nel 2006, ebbe lo steso risultato. Pagando la propria resistenza con l’uccisione di oltre 1.300 concittadini libanesi, Hezbollah e i suoi alleati respinsero l’attacco nel giro di poco più di un mese.
Gaza, sgomberata da Sharon dei suoi 6000 coloni per poter meglio disporre militarmente della Striscia, viene assaltata il 27 dicembre 2008 dopo un blocco di 18 mesi che aveva ridotto il milione e mezzo di abitanti alla fame, al collasso economico, alla neutralizzazione di tutte le strutture vitali. Nello stesso periodo assassinii mirati e bombardamenti provocano la morte di centinaia di civili e dirigenti. Proseguono anche le incursioni, le distruzioni, le uccisioni e gli arresti in Cisgiordania dove la polizia del presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) da man forte all’occupante. 11.000 sono nel 2009 i palestinesi detenuti e spesso torturati (come denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali) nelle carceri israeliane, perlopiù senza processo e senza imputazioni. A Gaza, una tregua di tre mesi, stabilita nell’autunno 2008 sotto auspici internazionali, viene violata unilateralmente da Israele con la continuazione del blocco (atto di guerra per la Convenzione di Ginevra) e con un’incursione il 4 novembre che provoca la morte di sei cittadini palestinesi. Solo a questo punto Hamas, il legittimo governo della Palestina occupata e, in quanto occupata, autorizzata dalla Carta delle Nazioni Unite a resistere con tutti i mezzi, risponde con i razzi artigianali Kassam. L’impari scambio di ostilità risulta in 3 vittime israeliane e in quasi 7000 abitanti di Gaza uccisi o feriti. Quasi all’unanimità governi, forze politiche “democratiche” e media, confortati dal consenso del quisling palestinese Abu Mazen, le cui milizie sono addestrate, finanziate e armate dagli Usa, attribuiscono ad Hamas l’intera responsabilità della crisi e del successivo genocidio.
Intanto cinque milioni di palestinesi in esilio attendono il ritorno alle loro case sancito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. 8 milioni di palestinesi chiedono, dopo sessant’anni, che le leggi universali del diritto umanitario e dell’autodeterminazione dei popoli valgano anche per loro. Forse il martirio di Gaza ha avvicinato quel momento. Contro ogni aspettativa israeliana, l’enormità dei crimini perpetrati, che si proponevano come modello per il dominio sui deboli in tutto il mondo, può rappresentare una svolta storica nello scontro tra verità e menzogna, tra ragione e torto, tra giustizia e ingiustizia, tra passato e futuro. In Palestina e non solo.
Di questo e altro si parlerà nel mio prossimo libro "Gaza: di Resistenza si vince" (Malatempora Edizioni).
martedì 3 febbraio 2009
CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU' BELLA
Su questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno arriccerà o il naso o le sopraciglia, a seconda di disgusto o perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come all’anima tua. Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci, immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari, extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’ identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo palestinese? Ai cubani, lo sanno tutti i latinoamericani, non piacciono molto le critiche. Per un verso ne hanno ben donde, sono stati i primi e i più bravi. Ma i cubani, intelligenti ed evoluti come sono, sanno anche molto bene che è amico e chi ruffiano.
Qua sopra, a proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano e per la Palestina libera abbiano registrato la presenza dell’ufficialità nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la liberazione degli africani dal colonialismo e dall’apartheid, dai suoi insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano ! – interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo, la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure, ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni” , a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani, risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla domanda su cosa mai migliaia di cubani vadano cercando nelle chiese evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori, perlopiù nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di chi lavora e produce. Quando, finito, se il cielo vuole, il criminale embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane, quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso ecologico?
E qui mi scappa un altro “ma”. Se è vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi, in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”. Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria, dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento, di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora inventato.
Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente. Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1. gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina… Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e Bachelet, i pallidissimi”. Aggiungo che senza l’incredibile, indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti, l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi, quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque secoli?
Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi, rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al sofferente ed eroico popolo palestinese” . Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista, manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che, unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.
Su Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni, bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana, per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e, come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo. Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.
Siamo dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del “terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista” e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi.
Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente. Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1. gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina… Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e Bachelet, i pallidissimi”. Aggiungo che senza l’incredibile, indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti, l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi, quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque secoli?
Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi, rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al sofferente ed eroico popolo palestinese” . Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista, manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che, unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.
Su Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni, bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana, per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e, come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo. Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.
Siamo dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del “terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista” e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi.
Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro” e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica, questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso, ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale, come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione, come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’ chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.
Le luci da Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale.
Le luci da Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale.
A Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.
Così parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare.
Così parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana. Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero governo cubano, se ne possono fidare.
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