Questo testo viene pubblicato in
Germania nel catalogo della Mostra del ‘68
Per qualche settimana sarò impegnato
nel montaggio del nuovo docufilm “O LA TROIKA O LA VITA – Epicentro Sud” e
dovrò rinunciare a qualche intervento sull’attualità politica e geopolitica.
Nel frattempo lascio ai miei interlocutori questo lungo testo su quello che
considero il periodo più significativo nella storia del nostro paese, il
decennio ’68-’77. Un decennio di cui non si dovrebbe perdere la memoria e di
cui si devono contrastare le analisi strumentali, quelle fatte con il facile
senno di poi, spesso denigratorie, o mettendo al centro le scelte opportuniste
e il degrado politico e morale di alcuni personaggi allora molto in vista. Si
tratta anche di una mia esperienza personale di grandissima intensità e che
alle radici molto lontane nel tempo aggiunge un retaggio che non muore.
1945. Sparare
dalla parte sbagliata contro la parte giusta
Quella dal ’68 in poi è una storia di contestazione,
rifiuto, rivolta, nuovo modo di vivere e stare insieme. La mia storia “contro
lo stato di cose presente” preso inizialmente, molto inizialmente, un indirizzo
diverso, sbagliato, a giudicare dagli esiti storici. E’ che stare nello Jungvolk, l’organizzazione della NSDAP
per i ragazzetti tra i 10 e i 14 anni (poi si passava alla Hitlerjugend, se si
faceva in tempo prima del Bunker), a me era piaciuto. Si era in compagnia di
coetanei, si aveva una bella divisa – pantaloncini blù, camicia kaki,
fazzolettone nero e, nientemeno un pugna- letto al cinturone. Si facevano un
sacco di giochi, battaglie tra romani e germani intorno ai ruderi del Vallo di
Adriano nell’Odenwald, palle, palloni, escursioni, cameratismo, canzoni
esaltate ed esaltanti. E, soprattutto, si marciava attraverso il paese, banda
in testa, con la gente che sorrideva (o ghignava) da finestre e lati della
strada. In più, si credeva di avere un ideale e lo si cantava a gola spiegata.
Che ci faceva un ragazzetto italiano nello Jungvolk? Scherzi del destino. Papà sotto le armi
nell’esercito del re, mamma, sorella ed io in vacanza in Baviera. Eravamo
alleati, ospiti graditi. Ma scattano il 1943 e l’8 settembre e passiamo da
alleati a nemici, peggio, traditori. Non più graditi e perciò costretti dal
Gauleiter al domicilio coatto in una bellissima cittadina della Franconia. Dal
momento che ci siamo dovuti restare fino al 1946, costretti prima dal Gauleiter
e, poi, dal comandante americano, Ci ho fatto le medie inferiori e, quando i
tank americani si sono presentati all’imbocco della statale, gli ho pure
sparato addosso. Addosso, per dire. C’erano armi dappertutto, abbandonate dalla
Wehrmacht allo sbando. Con amici più grandi rimediammo una Maschinengewehr
Messerschmidt e, da dentro al bosco, tirammo sulla colonna in arrivo. Non ho
idea di dove fosse finita quell’unica raffica. Ma ricordo che, in risposta, ci
fu uno schianto e un boato dietro di noi, e terra e rami che piovevano.
Scappammo come quei gatti alla cui coda
si usava appendere micette. Ma avevamo difeso “l’onore della Germania”
Una questione
personale
Avevo anche una ragione più personale per fare quella
cazzata nobilissima. Eravamo sul finire del 1944, frequentavo la seconda media.
Venivamo bombardati e mitragliati, per quanto fossimo una piccola cittadina,
strategica forse solo perché c’era un ponte sul Meno. Era stato convocato il Volksturm, l’estremo tentativo di Hitler
di mobilitare quel che restava di un popolo già decimato, affamato, evacuato.
Partirono tutti i maschi, tra i 14 e i 65 anni, qualche volta con le vanghe in
spalla come arma. Partì il lattaio un po’ matto, partì il libraio pelato con
tanto di pancetta e il capottone. Partirono i compagni delle medie superiori. Unici
maschi rimasti, quelli sotto i 14 anni, facevamo da protezione civile. Quando
suonava l’allarme aereo e tutti si precipitavano nei rifugi o in cantina,
dovevamo correre al centro raccolta dello Jungvolk
e da lì partivamo a spegnere gli incendi e a raccogliere i feriti, a
togliere le macerie dalle strade.
C’era un insediamento di profughi dalla Colonia
distrutta, sistemati in baracche al di là del fiume. Un giorno, mentre ancora
suonava la sirena, quelle baracche presero a fumare. Accorremmo, ovviamente in
uniforme. C’erano corpi dappertutto, le baracche incenerite e fumanti. C’erano
cavalli con la pance squarciate. C’era un mio compagno di classe. Steso davanti
alla sua casetta di legno. Tanta gente,
ma non si sentiva un suono, un lamento. Solo quel rombo degli aerei che
andavano e venivano. E l’ormai inutile urlo della sirena. Il mio amico aveva i calzoncini corti, gli
occhi spalancati sul cielo, le gambe piegate e le viscere sparse sull’erba. Ho
pensato a lui quando spingemmo il pulsante della raffica sui carri americani.
Breve marcia
di ideologia in ideologia. Un po’ grazie al militare, un po’ grazie a Swinging
London
Prima di uscire da un’idea contro che mi avrebbe
procurato nel tempo un sacco di improperi e illazioni maligne, dopo tutto ero
un bambino, ci misi un po’. In piccolissimo parevo un po’ il Malaparte dalla
parte dei vinti. Se Totò parlava di uomini e caporali, stavolta i caporali
erano i miei compagni, nella Genova tutta partigiana, che mi sfottevano per
l’acquisito accento tedesco. Pensare che i miei compagni tedeschi mi davano del
“Badoglio” e spesso finiva a cazzotti. Credo che la svolta vera capitò quando
ero di leva, nel corpo dei bersaglieri. Li avevo scelti perché erano quelli di
Porta Pia e della fine dello Stato Pontificio, quelli delle battaglie
vittoriose contro gli austriaci Feci una
grande, indimenticabile amicizia con Marcello, carrista, studente di
architettura e comunista. La violenza prevaricatrice del sistema e della sua
gerarchia ottusamente autoritaria dettero una mano per il cambio di paradigma. Però
devo dire che, dopo tutti quegli anni in Germania, diventai anche più italiano:
la Leva era l’occasione per mescolarsi agli altri diversi per regione,
dialetto, classe. E di conoscerli e di conoscere il paese.
Un’altra spintarella verso un conflitto con il nuovo
esistente, capitalista, me lo diede, eminentemente sul piano del costume e
della distruzione di certi tabù autocastranti, la Swinging London e la sedicente rivoluzione hippy degli anni ’60.
C’ero capitato, a Londra, avendo vinto un concorso per la radio BBC World
Service . L’istinto di bastian contrario, forse legato a cromosomi, forse alle
botte di mia madre, forse alle risse con
i compagni, si politicizzò meglio quando presi a lavorare come corrispondente
da Londra per un quotidiano di sinistra romano che dava addosso, con grande
baldanza, al regno democristiano e a chi, di là dall’Atlantico, sminuzzava il
paese e il popolo del Vietnam.
Dentro le
guerre, annusando rivoluzioni
Qualcosa di drastico e, a quanto risulta, di
definitivo, è legato a tre missioni di inviato di guerra per giornali italiani
vari. In Palestina, quando vidi la Guerra dei Sei Giorni bruciare villaggi di
contadini; in Irlanda del Nord, dove pacifici, allora, ma affamati e
discriminati proletari repubblicani che manifestavano venivano massacrati da
poliziotti unionisti e bande fasciste, prima, e poi sparati dai soldati di Sua
Maestà; in Eritrea dove, dai primi anni ’60, un intero popolo lottava in armi
per la sua liberazione dal colonialismo etiopico e io ci marciai insieme tra le
fiamme e le bombe e le gazzelle abbattute per un boccone di carne.
La rivolta di Berkeley, settembre 1964, prima
scintilla di uno Zeitgeist che avrebbe incendiato mezzo mondo per molti anni,
quando la Guardia Nazionale sparò, ferì e uccise, aveva subito dato alla
contestazione giovanile ed intellettuale di quegli anni ancora in fasce una
connotazione internazionalista e terzomondista, con al centro il Vietnam.
Parole d’ordine antimperialiste che echeggiavano anche sopra la strage della
piazza delle Tre Culture, a Tlatelolco, in un Messico impoverito e umiliato,
quando l’esercito sparò sugli studenti alla vigilia della solita festa
olimpionica dell’ordine capitalista, facendo centinaia di morti (il numero
esatto è sempre stato occultato). Il seme era germogliato già prima, con la
solidarietà delle sinistre mondiali alle lotte di liberazioni anticoloniali che
per vessillo e modello avevano l’Algeria di Ben Bella. La guerra dei Sei
Giorni, 1967, e poi quella del Kippur (1973), avevano acceso e poi alimentato
la fiamma della resistenza palestinese, prima dei guerriglieri Fedayin, poi
delle varie Intifada dei sassi.
A questi appuntamenti un sessantottino e, perlopiù,
uno specialista degli affari internazionali in Lotta Continua non poteva
mancare. Sostenendo i viaggi e i materiali non certo con i contributi di Lotta
Continua, che non pagava un soldo, ma con gli articoli che mi pubblicavano i
settimanali “Giorni Vie Nuove” e “ABC” e con le fotografie che distribuivo alle
agenzie internazionali, ho potuto frequentare anche l’epopea dei combattenti
palestinesi, prima con le incursioni nei territori occupati partite dalla Giordania,
poi nella lunga battaglia in Libano contro la destra filo-israeliana dei
Falangisti di Gemayel e Chamoun.
Fe-fe-Fedayin!
La base del fedayin del Fronte Democratico per la
Liberazione della Palestina, dove, con tanto di autorizzazione del leader Nayef
Hawatmeh, trascorsi l’intera primavera del 1970, è in una caverna nei monti che
guardano da est la valle del Giordano, a un tiro di Kalachnikov dal fiume. E’,
naturalmente, una base internazionalista: accanto ai figli della deportazione
del 1948, ci sono egiziani, giordani, algerini, francesi, britannici e questo
italiano. Di giorno si pensa ai rifornimenti, ai pasti, alle letture, al
montaggio e smontaggio delle armi. Di sera almeno un paio d’ore sono impegnate
nel dibattito politico, su imprescindibile base marxista-leninista, con innesti
di Mao, dato che, anche qui tra gli autoctoni, soprattutto di contadini si
tratta, in qualche caso diventati studenti. Qualcuno suona, qualcuno canta. Il
capo, un palestinese di poche, utili parole, gentile, che emana consapevolezza
e autorevolezza da ogni quadratino della sua kefiah, si chiama Mehdi. Se l’’è
portato via il Settembre Nero.
Alle ore piccolissime del nuovo giorno si parte per
l’appuntamento con le pattuglie israeliane che percorrono le terre lungo il
Giordano. A volte si guada il fiume, si pongono mine, o si allestisce l’imboscata.
Altre, ci si annida tra i cespugli sulla riva sinistra e si attende il
passaggio del blindato. In quel caso, appena i fedayin hanno scaricato il
caricatore e, io, il rullino della fotocamera, senza che si intromettesse un
frammento di minuto, dall’altra parte arriva l’inferno. Ci tirano addosso di
tutto, mitragliatrici, mortai, cannoni senza rinculo, razzi. Il trucco sta
nell’istante, mille volte provato, dell’acrobatico balzo, carpiato con torsione
all’indietro, dall’appiattimento proni sotto il cespuglio alla posizione pancia
a terra sul terreno libero, per subito strisciare col passo del leopardo,
sgomitando tra le zolle, verso la copertura del bananeto a un centinaio di
metri e, poi, del canalone secco ad altri cento. Freneticamente, prima che, nel
giro di minuti, si alzino gli elicotteri israeliani e inevitabilmente ci facciano
secchi. Per tutto il tempo della mia villeggiatura nelle grotte sul Giordano,
c’ è sempre andata bene.
Poi venne il Settembre Nero. Re Hussein obbedisce alle
intimazioni dei pratici di genocidi, massacra le organizzazioni della
Resistenza, che si rifugiano in Libano, e migliaia di civili palestinesi. Di
operazioni dei fedayin in Giordania non si parlò più.
E venne il 30 gennaio 1972, Bloody Sunday. Di nuovo
inviato di guerra per “Giorni Vie Nuove” e “ABC”, nel Nordirlanda dell’insurrezione.
Per i più elementari dei diritti civili, per la liberazione dell’ultima colonia
in Europa, per l’unità dell’isola celtica squartata dai britannici. Era
bellissimo, a Belfast e a Derry come nella Comune di Parigi. Una rivolta di
popolo, che marciava, cantava, accoglieva, sparava. Ne parlo dopo.
Siamo operai, compagni, braccianti e gente dei quartieri
/ siamo studenti, pastori sardi, divisi fino a ieri!
Bello gasato, di ritorno da Derry, Nord Irlanda, capitai
all’università di Roma in un concerto di tale Pino Masi. Era il cantore di
Lotta Continua, prima e massima organizzazione rivoluzionaria italiana di
quella fase in cui studenti, operaie e donne pensavano di dover riprendere il
discorso della lotta partigiana contro il nazifascismo, ma anche contro
l’establishment capitalista e contro l’imperialismo. E fu la musica a darmi il
tocco magico, a farmi risuonare dentro strumenti sconosciuti. Lotta Continua,
tra le tante cose belle e le tante cazzate, era il motore di una cultura alternativa.
Più di altri gruppi produceva cultura, letteratura, arte, musica, cinema,
canzoni che, come succede nei bei periodi della storia dei cambiamenti,
raccontavano la vicenda in corso, quella sofferta, quella sperata.
Individuavano i buoni e i cattivi, sparavano idee ed emozioni. Fu amore a prima
vista.
Rimasi per un po’ a fare il cronista di Paese Sera,
che ebbe la malaccortaggine di mandarmi a seguire le manifestazioni
studentesche e operaie del ’68-‘69. Cioè degli anni turbolentissimi della prima
contestazione, più tardi truculentissimi. Ma non eravamo più noi. A manipolare
l’impasto si era infiltrata una manina spuria.
Un po’ per volta, più che andare ad annotare cosa
succedeva tra manifestazioni, presidi, assemblee universitarie, barricate,
pestaggi della polizia e la sempre più robusta risposta di popolo, mi succedeva
di starci dentro, di partecipare, di condividere, di fare amicizia con gli
esponenti in vista, di ospitarli in casa, protetti dal mio status di
giornalista, quando le retate della polizia gli davano la caccia. Il che si
rifletteva inevitabilmente nei miei resoconti che divenivano via via meno
sobri, meno distaccati, e più solidali con chi le prendeva di più e le dava di meno, pur
avendo, nel sistema sclerotico, corrotto, autocratico, dalla famiglia al
lavoro, dalla scuola alla fabbrica,
tutte le ragioni del mondo.
E questo al mio giornale non tornava tanto. Il partito
al quale faceva riferimento e che, sulle prima aveva pensato di sostenere e,
più che altro cavalcare, l’ondata di protesta di tutta una generazione, con al
fianco il meglio dell’intellighenzia nazionale ed europea, tutt’a un tratto si
rese conto che la cosa gli stava sfuggendo di mano, che gli obiettivi del
movimento erano di mille lunghezze avanti ai suoi, che minacciava di sorgere e
crescere qualcosa alla sinistra del PCI, cosa che nessun partito comunista, per
quanto normalizzato e integrato, avrebbe mai potuto tollerare. Il PCI divenne
un nostro nemico, “burocrati revisionisti
che facevano da cane di guardia al capitale”. E quanto avevamo ragione! Il
ministro degli interni, Pecchioli, menava peggio di Rumor. Sotto la sede
nazionale del partito, a Roma, Via delle Botteghe Oscure, si transitava
intonando al segretario beffe e insulti: “be-be-be-Berlinguer”.
Qui c’erano operai del Sud, che ieri erano contadini
spossessati e strangolati da mafia e Stato e oggi erano operai rinserrati nelle
baracche ai margini della Fiat o della Pirelli. Qui c’erano studenti che mettevano
in discussione un apparato e metodo dell’istruzione, della magistratura, della
stampa, ereditato pari pari dal fascismo, peggio, dai Borboni, peggio, dai
Savoia, come pari pari era stata recuperata l’intera amministrazione mussoliniana
dello Stato. Qui c’erano donne che se la prendevano col patriarcato che ne riduceva
gli spazi pubblici, economici, sociali, politici, a meno di un terzo di quello
degli uomini. Qui c’era un ambiente ridotto a pascolo di speculatori,
cementifica tori, inquinatori.
L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita…
Qui c’erano le periferie degli espulsi dalla montagna,
dalla campagna, dal mare e, infine, anche dalla città che gli chiedeva di
accontentarsi di fornire manodopera a saldi, quando andava bene. Il celebrato
boom degli anni ’60 aveva fatto schizzare in alto una cerchia di redditieri,
parassiti, o astuti imprenditori dal respiro corto (glielo avrebbe poi mozzato
definitivamente il mercato dei beni industriali italiani messo su dagli
Andreatta, Draghi, Amato, Prodi, D’Alema, Bersani). Qui c’erano ragazze e ragazzi che si lasciavano alle
spalle preti, indissolubilità del matrimonio, delitti d’onore, illibatezza,
padronanza clericale sul proprio corpo, padri e mariti padroni, superstizioni e
menate varie, onanismo in testa, e passavano alla conoscenza reciproca, alle
demistificazione e deretoricizzazione dei sentimenti, dalla melassa al buon
vino.
Culi caldi e
morti al freddo
E fu fisiologicamente il passaggio da Paese Sera alla
libera professione e di quello che un po’ narcisisticamente, ma con molta
convinzione, chiamavamo “rivoluzionario
di professione”, la militanza a tempo pieno. Militavo in LC e scrivevo per
qualunque foglio o radio, e allora mille fiori erano fioriti, che accettasse le
intemperanze, le passioni, le esplosioni di collera, le esagerazioni, che
succhiavo dal sangue di quel decennio. Un decennio che fu il terzo risorgimento
italiano, dopo quello per l’unità
nazionale e quello della liberazione dal nazifascismo. Roba che mi è
rimasta attaccata e che mi pare tenga insieme le mie sinapsi, a barricata
contro tempo e riflussi. Come mi sono rimasti attaccati certi nomi, certe
facce: Saverio Saltarelli, Mariano Lupo, Tonino Miccichè, Walter Rossi, Francesco Lorusso…. Tanti
tantissimi. Uccisi dal padrone o dai fascisti, dicevamo. Uccisi da uno Stato
che stava già diventando di Polizia. Diversamente da altri, sono morti sepolti
in una memoria in coma.
Rispetto alle altre organizzazioni antagoniste
europee, marxiste, leniniste, maoiste, anarchiche, trotzkiste, hippiccheggianti,
Lotta Continua era quella con maggiore seguito numerico, ma anche la più
versatile e creativa, con un’inedita ma vivace mescolanza di marxismo dei
Grundrisse, scuola di Francoforte, terzomondismo alla Fanon e Malcolm X,
spontaneismo. Questo la portava ad allargare l’azione politica oltre i tradizionali
confini della classe operaia. Furono coinvolti sottoproletari dei campi e delle
periferie, i senzatetto con le occupazioni, i carcerati, i soldati di leva,
perfino i poliziotti. L’intervento si allargò da fabbrica, scuola, università,
all’universo mondo. Un nuovo programma si chiamava “Prendiamoci la città” e
contemplava studi, analisi, mobilitazioni a 360 gradi su tutte le problematiche
della vita urbana. Si ragionava in termini gramsciani delle casematte da
conquistare.
Lavoravo a tempo pieno nella redazione esteri del
quotidiano omonimo di LC. E, dato il mio curriculum di esperienze
internazionali e il patrimonio di lingue, venivo spedito di qua e di là, dalla
guerra civile del Libano alla rivolta nordirlandese, alle sedi di LC
all’estero. E ne riferivo in articoli, libri e documentari filmati. Tipo
Francoforte, da dove un nostro nucleo, in coabitazione con i tedeschi, faceva
intervento politico tra le decine di migliaia di operai italiani e stranieri
nelle fabbriche della Ruhr. A Roma avevo casa nel centro storico, a Trastevere,
vicino alla sede del giornale, che era anche quella della direzione. Il che
faceva sì che a me si chiedesse di ospitare chiunque che, nel gran traffico di
scambi con i compagni stranieri, capitasse a visitare l’organizzazione. E tutti
venivano, dormivano, la sera cantavano (avevamo formato un gruppo e componevo
canzoni rivoluzionarie che strepitavamo in giro), mangiavano, scopavano.
Nessuno che avesse mai lavato i piatti o rifatto il letto.
Compagni a
passo di gambero
Mi capitò anche un non molto gradevole, ma molto preso
di sè, Daniel Cohn Bendit, “Danny il rosso” (si confermò rosso di pelo, ma
presto smentì radicalmente il rosso politico), che ricordo masticare pasticcini
all’hashish e bere tè alla marijuana e, quando gli ricambiai una volta la
visita a Francoforte, girare nudo per un grande appartamento di boiserie
grattandosi le palle. Suscitavamo molta simpatia tra intellettuali
intelligente, anche stranieri. Ci sostenevano regalandoci quadri, facendoci
concerti, intervenendo a convegni, offrendo donazioni. Con uno di questi,
particolarmente esimio, diventammo amici per anni. Uno dei massimi scrittori
americani, critico al vetriolo della degenerazione yankee: Gore Vidal.
Un altro con cui a pelle non mi ci trovavo era
l’allora già osannato e poi santificato tout court (probabilmente dagli amici
del giaguaro) Alex Langher, ebreo altoatesino convertito a un cattolicesimo di
rigido buonismo. Nella cupola capeggiato dal principe della supponenza
soperchieria (dove tale qualità porta s’è visto), Adriano Sofri, aveva il ruolo del Fouché, ministro di
polizia. Allestiva processi popolari. Fui processato anch’io. Un cupo
suqallidoneNon ricordo più se fu questione di spinelli o di donne. Si riciclò,
come molti suoi soci nell’azionariato rivoluzionario, da verde. Verdissimo.
Predicava lentezza, gentilezza, pace. Quando il papa, Berlino e i fascisti
croati incominciarono ad azzannare la Jugoslavia, fu prontissimo a invocare,
senza tanta lentezza, gentilezza, pace, bombardamenti Nato sulla Serbia. Finì
con l’impiccarsi. Un ipocrita. C’era di meglio tra noi.
Bloody Sunday
Mie
Mie foto della
Domenica di Sangue
Capitai nuovamente a Derry in un momento stellare, a
cavallo tra 1971 e 1972, quando la protesta civile di cattolici repubblicani
stava assumendo, sotto la violenza repressiva, forme un tantino più energiche.
Era ricomparsa l’IRA e noi eravamo con essa. Momenti esaltanti come la cacciata
dal ghetto di Derry, a furor di popolo e di Molotov, degli occupanti britannici
e la costituzione della Free Derry, emula
della Free Belfast, piccole
riproduzioni della Comune di Parigi. Momenti drammatici come la Domenica di
Sangue, Bloody Sunday, il 30 gennaio 1972. Un pacifico corteo per i Civil Rights, con tutto il popolo del
ghetto, 20mila tra donne, uomini, bambini, aggredito alle spalle, su evidente
ordine di Londra, dal 1° Battaglione Paracadutisti di Sua Maestà. Ammazzarono a
freddo 14 persone, ne ferirono decine. Ero l’unico giornalista straniero sul posto
e fotografai e registrai su nastro quelle che erano nient’altro che esecuzioni
extragiudiziali di innocenti inermi. Tutta la stampa convenuta per l’evento del
corteo, era stata tenuta lontana dalle barriere dell’esercito. Da povero cronista,
abitando già nel ghetto, mi ero trovato dalla parte giusta. E fu lo scoop. E un
mio sguardo nell’abisso della nequizia del potere. Tale da conoscerlo per
sempre.
Con quella feroce provocazione, Londra intendeva
trasformare il conflitto civile in armato, contando di vincerlo in quattro e
quattrotto. Ma l’Ira crebbe, ebbe dietro di sé la totalità della minoranza e
una vera e proprio guerra anticolonialista, l’ultima in Europa, durò fino al
1998. Fu in quell’anno con un accordo a perdere, quello del “Venerdì Santo”, da
Gerry Adams, che avevo conosciuto comandante dell’Ira, l’organizzazione storica
della resistenza irlandese, accettò il cessate il fuoco, l’accordo per un
governo provinciale delle Sei Contee sotto tutela di Londra e la consegna delle
armi. Consegna che non fu chiesta alle organizzazioni paramilitari protestanti
e unioniste. Bobby Sands e i suoi nove compagni, uccisi dalla Thatcher per
sciopero della fame, morti invano?
Recenti visite in Nordirlanda, per testimoniare alle
inchieste che il Regno Unito, sotto pressione popolare, dovette condurre sul
massacro di Derry, mi confermarono che lassù nulla è risolto e che il fuoco continua
a covare sotto la cenere. Al di là di ogni “compromesso storico”. A riunificarsi
gli irlandesi non hanno rinunciato per tre secoli e milioni di morti. Non si
vede perché dovrebbero adesso.
Le mie foto e registrazioni della mezz’ora di
stragismo britannico costituivano un materiale che avrebbe messo i responsabili
con le spalle al muro. Il comando inglese diede ordine, via radio, di fermarmi
in ogni modo e prelevare quanto portavo addosso. Ragazzi dell’Ira che avevano
intercettato la comunicazione, mi presero in carico, mi nascosero nel cuore del
ghetto e, la notte stessa, per vie solo a loro note, mi trasferirono nella
Repubblica dove, a Dublino, la mattina dopo, potei fornire a televisione, radio
e stampa le mie immagini e le mie voci di verità. Verità che, intanto, nelle
trasmissioni dei canali britannici avevo sentito raccontare così dai comandanti
sul campo: “Un nostro reparto a Derry ha dovuto
rispondere a un’imboscata dell’Ira che ci ha sparato dai tetti. Ci risultano
alcune vittime”. Una volta per tutte mi ero
reso conto di chi siano i maestri
massimi di fake news. Tutto questo lo
riversai in due libri “Un Vietnam in Europa”, “Blood in the street” e in un
docufilm, che Marco Ferreri, il grande regista, mi montò e che LC diffuse. Tutte
le copie confiscate dalle varie polizie interessate, disperse, perdute. Ci ne
sapesse qualcosa, me lo faccia sapere.
Direttore di
giornale: 150 processi
L’assassinio, nel 1972, di Mario Calabresi, il
commissario di polizia di Milano che aveva puntato sugli anarchici e su tutto
il movimento di quegli anni e che la controinformazione ritenne responsabile
dell’uccisione dell’anarchico Giuseppe Pinelli, volato da una finestra della
questura, provocò un editoriale di Adriano Sofri, leader di LC, che definì l’uccisione
giustizia popolare e le conseguenti dimissioni
di una scandalizzata direttrice responsabile del quotidiano, la
scrittrice Adele Cambria. Successore di questa, ma anche di Pier Paolo Pasolini
e altri più illustri di me, assunsi io la direzione responsabile e ne ricavai
un bombardamento di denunce e processi. Non tanto per quanto il giornale
stampava, o tantomeno per quanto io scrivevo di Palestina, Irlanda, Vietnam,
lotte anticoloniali, Cuba. Piuttosto per le follie di manifesti, volantini e
dazebao che inconsulti, onanistici e irresponsabili compagni diffondevano
localmente invitando a impiccare Gianni Agnelli, a sparare sugli ufficiali, a
dar fuoco all’ambasciata Usa. O almeno questo era il pretesto dell’Ufficio
Politico della Questura.
A tal punto crebbe la montagna dei rinvii a processo
che, a un certo punto, inizio del 1973, si sentì aria di mandato di cattura.
Già era stato arrestato il direttore del giornale di Potere Operaio. Si
ritenne, non di liberarmi del fardello da capro espiatorio, ma di farmi per un
po’ sparire dalla circolazione. Rimasi fuori fino al 1975. Prima a Londra,
ambiente familiare, e poi a Bruxelles, per sopravvivere (avevo una compagna e
un figlioletto): riuscii a farmi prendere come interprete dalla Commissione
Europea. Non fecero la benché minima ricerca sul latitante!
Londra: Lotta
Continua diventa “Fight On”
A Londra fu molto bello. Non c’era niente di
paragonabile a Lotta Continua. Così, approfittando dell’ospitalità,
collaborazione e sede di un simpatico gruppo di anarchici, insieme a diversi
espatriati politicizzati, fondammo “Fight On”, cioè Lotta Continua di Gran
Bretagna. Nientemeno. E ci demmo da fare, mica no. Eravamo una trentina e, più
esperti degli inglesi nello scasinare, avevamo l’impatto di dieci volte tanti.
Il nostro quartiere, Ladbroke Grove, contiguo a Notting Hill, formicolava di
poveri, immigrati, squatter, tutti molto giovani. Il ciclostile dei compagni
anarchici lavorava fino all’incandescenza. Organizzammo occupazioni di case,
assemblee di quartiere, su tasse, trasporti, repressione, colonialismo,
discriminazioni, imperialismo, formammo un gruppo canterino e tradussi in
inglese le nostre canzoni. Non mi fu mai chiaro se le facce attonite del nostro
pubblico in piazza esprimevano meraviglia, ammirazione, o sgomento.
Facevamo decine di chilometri per volantinare
addirittura a Dagenham, la più grande fabbrica di automobili, Ford, dell’Inghilterra.
E, se su tutto il resto la Special Branch, polizia britannica addetta agli
insubordinati politici, sembrava aver sorvolato, la nostra penetrazione in un
ambito di classe più strategico, dove ci affiancavamo ad altri con attività e
obiettivi affini, prefigurava qualcosa di fastidioso. Una gola profonda ci
avvertì del girolonzolio intorno alla nostra abitazione (occupata) di elementi
sospetti. Aria pesante. La sacra famigliola aveva appena fatto in tempo a
levare i suoi quattro stracci e a prendere il traghetto per Ostenda, che fummo
avvertiti dell’irruzione della Special Branch nell’alloggio abbandonato.
Fìuuuu!
Un latitante
alla Commissione Europea
A Bruxelles riuscii ad arruolarmi nella Comunità
Economica Europea, da interprete,. cambiando solo il nome (di cognomi Grimaldi ce
ne sono quanti i grani di sabbia). Sguazzai
nell’impunità e in un tardivo sussulto di vita goliardica per quasi due anni.
Da squattrinato totale, mi ritrovai con belli eurosoldini in tasca. Da
motociclista divenni automobilista e per
un po’ il mondo mi fece l’occhiolino.
Parve che a metà 1975 il famigerato mandato di cattura
al direttore responsabile del quotidiano Lotta Continua, e irresponsabile dei
supplementi al giornale pubblicati altrove, fosse stato ritirato. Tornammo e
ripresi il mio posto al giornale, agli esteri, non più come direttore. 150
processi per reati di stampa erano bastati. Era il tempo degli ultimi fuochi di
una grande speranza di riscatto dei deprivati e offesi. Si era già diffuso l’obnubilamento
di una militarizzazione suicida, perché
del tutto anacronistica e fuori contesto. Ovviamente indotta e manipolata. Al
di là di una manovalanza, quanto meno onesta, che vi si smarrì. Il giornale, diretto
da Enrico De Aglio, si addomesticò spontaneamente. O perché glielo raccomandò
il nuovo nume tutelare, Claudio Martelli, braccio destro di Craxi. Chissà.
1977, tra
indiani senza tomahawk e gente con la
P38
Il ’77 vide la comparsa di nuove forme di organizzazione
di opposizione radicale. Gli Indiani Metropolitani, situazionisti e luddisti,
un po’ tardiva swinging London, un
po’ Sioux da pellicola. E Autonomia Operaia, erede dei precedenti Potere
Operaio, Avanguardia Operaia, Lotta Continua e altri, vagamente più rozzi, con
un guru ideologicamente poco classificabile, ma molto ambiguo, il filosofo Toni
Negri da Padova. Un altro di quelli che Pannella tirò fuori dai guiai. Eppoi
c’erano ancora cospicui resti di irriducibili lottacontinuisti. Tra cui il sottoscritto.
Di quella effimera fase, che comunque si trascinò negli anni con esiti sempre
più solipsisti, il momento per me più alto fu quello della cacciata
dall’Università, dove aveva tentato di insediare i suoi al posto degli
universitari in lotta, di Luciano Lama, segretario del massimo sindacato italiano,
la CGIL. Uno che si tingeva i capelli
tra il color fragola e il castagna.
Erano lontani i tempi, chiamati dell’ ’”Autunno
Caldo”, 1969-1970, troncati con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura a Milano,
la “Strage di Stato”, come rivelò una fantastica inchiesta di Lotta Continua.
Tempi in cui il sindacato era stato costretto dalla mobilitazione di massa dei
movimenti ad abbandonare le posizioni consociative mantenute per lunghi anni,
in subordine ai padroni, e aveva guadagnato nuovi diritti, come lo Statuto dei
Lavoratori, nuovi rapporti di forza in fabbrica e nella pubblica istruzione,
provvedimenti contro la rendita fondiaria. Da sempre cinghia di trasmissione
dei partiti di sinistra, il sindacato di Lama era ripiegato sulle antiche
usanze e si poneva oggettivamente come forza di normalizzazione. Ebbe la
temerarietà di allestire un comizio nel piazzale della maggiore università
italiana, presidio delle sinistre radicali da sempre, la Sapienza di Roma. Ebbe
modo di dare sfogo alla classica retorica parolaia di tanti sindacalisti solo
per pochi attimi. Poi si scatenò la baraonda. Indiani Metropolitani intesta,
tutti gli altri dietro. Palco rovesciato, Luciano Lama, circondato dai suoi
guardiaspalle, in indecorosa fuga. Non so se a ragione, ma allora mi parvero
soddisfazioni. E anche adesso.
Giorgiana e
Cossiga
12 maggio del 1977, ci fu una grande manifestazione di
tutti noi, intendo quelli nati politicamente nel ’68, a Valle Giulia, alla
Sapienza, a Mirafiori, alla Pirelli, a San Basilio. Era la ricorrenza del
divorzio, ma era anche una protesta contro il governo Andreotti, un primo
ministro poi trovato connivente con la mafia. Era anche il mio compleanno.
Nella zona di Campo dei Fiori, Roma, la polizia attaccò brutalmente, senza
ragione. La consegna era far fuori quanto restava di un movimento di massa giusto
e rispettabile e ridurre ogni cosa allo scontro tra Stato e partito armato.
Fare anni di piombo. Un po’ come a Derry.
Gli scontri proseguirono per tutto il pomeriggio, fino
a notte inoltrata e si dipanarono per i vicoli di quello storico quartiere e
poi, oltre, a Trastevere. A Campo de’ Fiori mi beccai di rimbalzo un candelotto
lacrimogeno sul ginocchio. Riuscii a trascinarmi fino al di là del Tevere,
verso casa. Il Ponte Garibaldi divenne una specie di trincea. Dal lato
Trastevere erano tornati a raccogliersi i manifestanti. Sul lato opposto la
polizia, i carabinieri e una novità. Inventata dal capo dello Stato più vicino
a all’idea di chi non si vorrebbe mai come capo di Stato: i “Falchi”,
poliziotti travestiti da dimostranti con licenza di sparare. E uccidere. E
spararono. E uccisero. Giorgiana Masi, 17 anni, all’imbocco del ponte. Sono
passati 40 anni è ancora l’assassino non è noto. La questura incolpò gli
autonomi. Ma io ero a pochi metri da Giorgiana e da queste parti, giuro, non c’era
nessuno che sparasse. C’era chi tirava bocce, Molotov, e sassi. Basta. Del
resto, se lo sparatore fosse stato uno di noi, vuoi che non lo avrebbero preso?
Prendevano anche quelli che sparavano chewing
gum.
Nuova fuga:
Yemen
Con quel ginocchio gonfio come un cocomero, il giorno
dopo evitai gli ospedali, infestati di agenti. Mi feci visitare da un urologo,
non c’era di meglio e poi era un compagno. SI chiamava Giorgio Alpi ed era il
padre di quella che sarebbe poi stata la mia collega in RAI, al TG3, Ilaria,
trucidata con il suo operatore in Somalia, inviata di guerra, da coloro di cui
aveva scoperto i traffici di armi e rifiuti.
Giorgio mi consigliò di darmela a gambe, con tanto di
ginocchione. E finìì in Yemen. Per 18 mesi. Paese bellissimo, ospitale,
intelligente, antico e consapevole di ciò. Con una grande presidente-poeta,
nasseriano, Ibrahim El Hamdi, con il quale divenimmo amici, a chiederci
reciprocamente delle rispettive rivoluzioni e degli amori letterari. I sauditi
gli fecero un colpo di Stato e lo ammazzarono. Feci corrispondenze per vari
giornali, ebbi modo di visitare e conoscere parti dei Medioriente che non avevo
ancora frequentato. Paesi decolonizzati, a cui più tardi la propria
autodeterminazione non sarebbe stata perdonata: Iraq, Sudan, Siria. Divenni
corrispondente anche di giornali del meraviglioso Iraq di Saddam. Dopo il
rovesciamento di El Hamdi, dal generale golpista fui dichiarato persona non
grata ed espulso dal paese. Tornai a Roma. Qui tutto tranquillo.
Ma qualcosa era
cambiato in profondità. Dal rosso si era passati al rosa. Erano apparsi gli
Indiani Metropolitani e ll baricentro era diventato, da una militanza
rivoluzionaria per cambiare il mondo, a qualcosa di come goderselo, il mondo.
La durezza dello scontro era stato lasciato ai gruppi armati, prima nati da una
genuina convinzione che dal movimento di massa si dovesse sviluppare la lotta
armata, poi presto pesantemente infiltrati dallo Stato avviato alla piena
restaurazione, dai suoi propri servizi e da quelli delle potenze da sempre
padrine e padrone del paese. Svolta esemplificata dal rapimento e
dall’uccisione di Moro, dalla contrapposizione “estremisti di
sinistra-estremisti di destra”, nella strategia statale della tensione.
Il vento non
fischia più, ma c’è chi lo fiuta
Fiutato il vento, la direzione, da sempre clanica, di
Lotta Continua, riunita attorno al “carismatico” Adriano Sofri, ora inseguito
dall’accusa e poi dai processi di mandante dell’omicidio Calabresi,
indifferente a qualche decina di compagni falciati dalla polizia o dai fascisti
delle varie organizzazioni gestite dai servizi segreti, indifferente a
un’intera generazione lasciata senza direzione, progetto, futuro, se la diede a gambe. Chiuse formalmente
l’esperienza dell’organizzazione nel corso di un memorabile, lacerante
congresso finale, Rimini, novembre 1976, Sofri e tutto il clan transitarono
sotto la tutela del Partito Radicale di Marco Pannella, profondamente atlantico
e filo-israeliano, per poi accasarsi in casa Craxi e soprattutto nei grandi
media di regime. Dove ricevettero ampi spazi e remunerazioni, come spettano a
coloro che all’establishment trionfante rendono il disonore del pentimento e
del cambio di cavallo.
Tre erano state le personalità apicali della più
grande organizzazione rivoluzionaria d’Europa. Adriano Sofri, ideologo e
capopopolo, che dopo una serie interminabile di processi, fu condannato a una
ventina d’anni per il caso Calabresi, ma se ne uscì molto prima per assurgere a
testa d’uovo del nuovo corso amerikano e a penna di punta del quotidiano La
Repubblica; Giorgio Pietrostefani, addetto all’organizzazione e al servizio
d’ordine, condannato anche lui, ma contumace e tranquillo a Parigi, dove per
lunghi anni ha gestito la flotta aerea di Mimmo Cardella, un delinquente
fuggito in Nicaragua e poi trapassato
che, per coprire affari sporchissimi di armi e rifiuti, gestiva una “Comunità
per tossici” a Trapani; Mauro Rostagno, il leader movimentista e un po’
luddista del movimento, responsabile del passaggio dal leninismo di ferro alla
psichidelia arancione e, infine, membro del gruppo Cardella a Trapani, dove
venne ucciso. Secondo alcuni investigatori, per diatribe interne al gruppo
criminale, secondo altri, che prevarranno nei processi, per aver irritato la
mafia con i suoi interventi in una radio privata.
La vicenda personale di questi
personaggi passati, insieme ad altri del clan originario, da una faccia della
luna a quella opposta, scura, non coincide, anzi contrasta, con quella delle
decine di migliaia di giovani e meno giovani che, molti per oltre 10 anni,
hanno speso per l’impegno quotidiano e la prospettiva di un mondo opposto a
quello esistente, tra mediocre, corrotto e prevaricatore, una larga fetta della
loro vita. Molti il posto di lavoro, gli studi, la casa, la famiglia. Diversi
la vita. Forse sbagliando molte cose, ma facendone anche di sublimi e,
soprattutto, mai viste più. E, diversamente da quanto si vede oggi, girando lo
sguardo a 360 grandi, credendoci. Non è lecito che la storia imbratti la loro
nobiltà, il loro sacrificio, spesso il loro suicidio, con la penosa vicenda di
una cosca di opportunisti.
Anche, per quanto alcuni
protagonisti lo abbiano rinnegato, perché quel decennio resta il migliore, il
più dignitoso, il più vivo, nel tanto bene, nell’inevitabile male dei folli,
della desolante storia della Repubblica. E, come ho detto sopra, si allaccia in
ideale continuità ai momenti alti della rinascita del paese, dal Risorgimento
alla liberazione partigiana. Se dallo squallore drammatico di un presente in disfacimento morale,
intellettuale, sociale, dovesse mai risorgere un sentimento di alterità radicale,
di recupero dello smarrito, di progetto umano, saranno i semi del ’68 ad averlo
nutrito.
Ce ne fossero!