Quando si dirà in un qualsiasi paese
del mondo: i miei poveri sono felici, né ignoranza, né carenze si trovano tra
di loro, le mie prigioni sono vuote di detenuti, le mie strade libere da
mendicanti, gli anziani non sono deprivati, le tasse non oppressive, il mondo
razionale è mio amico perché io sono amico della sua felicità. Quando si
possono dire queste cose, allora il mio paese potrà vantersi della sua
costituzione e del suo governo. Thomas Paine)
Noi qua ci
dibattiamo tra i fanghi volanti di un’immonda campagna elettorale, i cui
protagonisti sono tutti indistintamente burattini della criminalità finanziaria,
religiosa e mafiosa organizzata e si dicono chierichetti del golpista
Napolitano, a sua volta lustrascarpe della supermarionetta Obama. L’unico che
esce dal coro e si astiene da riverenze
e baciamano, addirittura osa l’inosabile spernacchiando gli Usa e Israele,
rifiutando le guerre e gli strumenti di guerra a cui i licantropi imperiali
trascinano gli sguatteri spendibili, il “comico”, il “populista”, “l’antipolitico”,
cioè l’unico non populista e seriamente politico, viene criminalizzato,
sbeffeggiato, insultato, diffamato. Gente che non ha nulla da dire sullo
sterminio di un popolo dopo l’altro nel Sud del mondo, sulle strategie di
malattia e fame che falciano bambini e donne a milioni, si strappa le vesti per
un’uscita infelice di Grillo sugli immigrati. Gente che considera il
feldmaresciallo SS Obama, devastatore della costituzione americana, primatista
guerrafondaio della storia Usa, creatore del più grande Stato di polizia del
mondo, uno che con i droni assassini si è fatto insieme accusa, giudice e boia
di chiunque gli faccia saltare la mosca al naso, nasconde il proprio
asservimento a questa forma di tecnodittatura postnazista sotto gli alti lai
per la sprovveduto apertura del Grillo a Casa Pound.
Dedicando il
trionfo elettorale a Hugo Chavez e ai caduti nella difesa del presidente e dell’ordine
democratico, al tempo del colpo di Stato del 2010 che doveva culminare con l’uccisionedel
Capo di Stato, sequestrato nell’ospedale della Polizia, Rafael Correa, in
carica dal 2006, ha detto: “Abbiamo
sconfitto i demagoghi e la stampa mercatista e renderemo irreversibile la
relazione di potere a vantaggio della maggioranza e a scapito dei poteri di
fatto. Qui non comanderanno la bancocrazia, le potenze mediatiche, qui non
comanderanno gli Stati egemonici; con questa rivoluzione comanderanno le equatoriane
e gli equatoriani. Continueremo con questa rivoluzione e si sappia che non
falliremo. Potremo commettere, da esseri umani, molti errori, ma colui che
afferma di non commettere errori e colui che non ha mai fatto niente nella
vita. Non ipotecheremo la patria per consentire l’ingresso del capitale
multinazionale e daremo al debito sociale la priorità su quello estero.
Le prime
felicitazioni al vincitore sono arrivate da Cuba, Nicaragua, Venezuela,
Bolivia, Argentina, dallo schieramento dei paesi dell’ALBA (Alleanza
Bolivariana per le Americhe) di cui l’Ecuador di Correa è entrato a far parte
(e non gli è andata storta come al presidente honduregno Manuel Zelaya,
rovesciato da un golpe Usa), in particolare da Hugo Chavez in fase di
convalescenza all’Avana.
Alle
elezioni presidenziali e parlamentari di domenica, il presidente Rafael Correa
ha trionfato con quasi il 60% dei voti di oltre 11 milioni di elettori (secondo
gli exitpoll), conseguendo 10 punti in più rispetto al 2009 e distanziando il
rivale più accreditato, il banchiere sponsorizzato dagli Usa Guillermo Lasso,
di più di 30 punti. A prefisso telefonico l’esito degli altri concorrenti, dal
destro Lucio Gutierrez al sinistro Alberto Acosta, uno per il quale l’oramai
del tutto normalizzato “manifesto” filo-vendolian-bersaniano ha voluto
sbilanciarsi con soffietti elogiativi. In Parlamento il partito di Correa,
Alianza Pais, avrà la maggioranza assoluta e potrà finalmente procedere a
misure di salvaguardia ambientale e di democratizzazione di un’oligarchia
mediatica asservita ai poteri economici e al diktat imperialista.
Ho avuto il
privilegio, a metà del decennio, di vivere e filmare quanto stava rovesciando
nel suo contrario il paradigma di un America Latina “cortile di casa degli Usa”.
Ho visto come si possono fare rivoluzioni vincenti nell’era della dittatura
neoliberista e dell’offensiva imperialista finalizzate a succhiare quanto di
plusvalore resta nei paesi già saccheggiati dal colonialismo. In Ecuador, alla
rivolta degli indigeni nelle zone devastate dalla Chevron e da altri cannibali
petroliferi, rispondevano a Quito i forajidos,
l’equivalente dell’argentino que se
vayano todos, con una mobilitazione di mesi e una risposta adeguata alla
violenza del corruttissimo fantoccio Usa, Lucio Gutierrez. La rivolta culminò con
l’occupazione del parlamento e la paralisi dello Stato. Aveva trionfato quella revolucion ciudadana che Correa, poco
dopo, avrebbe istituzionalizzato con la nuova costituzione democratica,
ecologica, partecipativa. Ancora una volta, come prima in Argentina, Venezuela,
e poi in Bolivia e Nicaragua, sono state le masse, non a prendere il Palazzo d’Inverno,
ma ad assediarlo, soffocarlo, disintegrarlo e, democraticamente, attraverso il
processo elettorale sostenuto dalla mobilitazione rivoluzionaria, processo
elettorale che fin lì era sembrato essere solo lo strumento della paradittatura
del capitale e delle potenze coloniali, conquistare il potere.
Per la prima
volta nella storia del pianeta un presidente ha fatto iscrivere nella
Costituzione la personalità giuridica della Natura, ha cacciato su due piedi la
base yankee di Manta, la più grande nell’America Latina, ha rivendicato al
petrolio il diritto di essere pagato dagli Stati per essere lasciato sotto
terra. Ai peggiori distruttori degli ecosistemi nell’Amazzonia dei giacimenti
petroliferi è stato dato il benservito e, per via legale, se ne reclamano gli
indennizzi. Al diavolo sono mandati gli avvoltoi del FMI e della BM, è stata ridotto
il debito, con Chavez è stato respinto l’ALCA, il trattato di libro scambio con
cui gli Usa intendevano spolpare l’America Latina.
Cento erano
gli obiettivi della Revolucion ciudadana,
in massima parte realizzati durante i due mandati di Correa. Nel 2006 per ogni
dollari investito nella spesa sociale, se ne investiva 1,8 nel debito estero.
Nel 2011 di quel dollaro solo 33 centesimi andavano a pagare il debito.
Puntando verso la piena occupazione, si é grandemente ridotta la disoccupazione,
nell’ambito di una spesa per la sanità decuplicata si è ridotto di cinque volte
il paludismo, malattia endemica. Di 8 volte si è aumentata la spesa per l’istruzione
e la ricerca, l’investimento per lo Stato sociale per cittadino passava in
cinque anni da 90 dollari a 446 e la povertà veniva ridotta di 12 punti. Sono
aumentate le case popolari, è in corso un grande piano infrastrutturale per
agevolare la comunicazione tra comunità e aree produttive, nel massimo rispetto
dell’ambiente e dei popoli nativi. Presso la base di questi popoli Correa, come
rivelano sondaggi e manifestazioni, gode di un vastissimo consenso. Non così
nella loro massima organizzazione, la CONAIE.
Correa,
infatti, non ha dovuto soltanto affrontare la solita panoplia della guerra
medatica, con i grandi giornali e le emittenti in mano all’oligarchia e le
cannoniere occidentali, dalla BBC alla CNN e al Pais, impegnati alla morte con diffamazioni, annunci di brogli, le
solite accuse di caudillismo autoritario e le manovre di destabilizzazione con
tentativi di golpe e sabotaggi di varie corporazioni e Ong. Tra i più accaniti
avversari di Correa e della rivoluzione sono stati dall’inizio i dirigenti
della CONAIE. Un’opposizione che, ammantata di integralismo ecologico, assumeva
antistorici caratteri di etnicismo
separatista. Avevo intervistato Luis Macas, all’epoca presidente della CONAIE,
per sentirmi illustrare, sotto l’etichetta di Stato Multinazionale, il
fantasioso e anacronistico progetto di una riunificazione dei popoli indigeni
in entità autonoma, dal Perù alla Bolivia e all’Ecuador e a quali altri indios
ci stessero. Il modello, dichiarò Macas, era l’impero Inca. Un riordinamento su
base monoetnica che avrebbe comportato la dissoluzione degli Stati presenti e
della loro sovranità. Con grandissima soddisfazione di un imperialismo in
ritirata, ma non rassegnato.
La CONAIE e
la sua espressione partitica, il Pachakuti, avevano, a suo tempo, sostenuto e
difeso fino all’ultimo il peggiore dei tiranelli neoliberisti e filo-Usa della
parte finale del secolo scorso. Lucio Gutierrez, indio rinnegato e anche un po’
folle, primatista di corruzione e protagonista di uscite bislacche alla
Berlusconi, uno che aveva steso il paese a zerbino sotto gli anfibi militari ed
economici Usa, era poi stato defenestrato dai forajidos, eminentemente studenti, lavoratori e ceto medio urbano,
mentre le organizzazioni indigeni erano rimaste alla finestra, o accanto a
Gutierrez. Quando la revolucion ciudadana cambiava paradigma sociale e costituzionale,
aprendo a inediti riconoscimenti della particolarità indigena ed evidenziando,
al confronto, il disastro sociale e i delitti personali di Gutierrez, i
dirigenti Indios dettero segno di ravvedimento e di riconoscimento di quanto
veniva messo in opera.
Ma è durata
poco. Al colpo di Stato di un gruppo di questurini, teleguidati dall’ambasciata
Usa, ebbero la faccia di esprimere il proprio appoggio, per quanto smentiti
dalla loro base. Con rivendicazioni di integralismo ambientalista, si opponevano
a qualsiasi, pur prudente, opera che il governo attuava sul piano infrastrutturale
per impedire che il paese sprofondasse nel limbo degli importatori totali.
Ricordo la battaglia per l’acqua, che Correa voleva pubblica, ma organizzata da
un ente di Stato per garantirne l’equa distribuzione tra chi ne aveva tanta e
chi non ne aveva punta, a cui i dirigenti indigeni risposero con la pretesa di
sapore leghista: “l’acqua a chi ce l’ha”.
Il “manifesto”
ha voluto commentare la campagna elettorale in Ecuador, dando ampio spazio a
tale Alberto Acosta, leader di un “movimento di sinistra”, formato da maoisti,
trotzkisti, radicali vari, alcuni accademici, che, da sinistra, contestava i
provvedimenti del governo, qualsiasi settore riguardassero. Al progetto di
Acosta hanno subito aderito i vertici delle organizzazioni indigene, la cui
forza elettorale non era stata sufficiente a guadagnarsi spazi all’interno
delle istituzioni rivoluzionarie. Visto che, a ben guardare, le differenze ideologiche
tra questi gruppi e il partito di governo sono di scarsa rilevanza, è fondato
il sospetto che si tratti di motivazioni personalistiche, da una parte, e di
rivendicazioni etniciste dall’altra. Ed è un vero peccato che, in un processo
di cambiamento drastico, con il conseguente passaggio di potere e di ricchezza
da una minoranza di parassiti alla maggioranza della popolazione, vi siano
queste divisioni.
Che poi si
possono vedere anche in altri paesi a indirizzo progressista, dove spesso le
organizzazioni indigene sono impegnate, per effettivi interessi corporativi, ma sotto il manto dell’assolutismo
ecologico-separatista, a destabilizzare
governi invisi all’imperialismo e ai suoi fiduciari locali. Organizzazioni alle
quali, del resto, non mancano il plauso e il fattivo impegno di numerose Ong
del Nord del mondo, un po’, come USAIDS, autentici tentacoli del servizi
segreti imperiali, un po’ soggetti dall’ispirazione caritatevole, la cui
visione della questione indigena latinoamericana è adulterata da un
romanticismo ascientifico e, soprattutto, interclassista ed etnicista. Alla
Marcos, per intenderci. Episodio significativo di questo attrito visto con
grande benevolenza dalle centrali neoliberiste fu la famosa questione della
strada che avrebbe dovuto unire la Bolivia dal Brasile alla costa pacifica,
attraversando una riserva naturale, Tipnis, abitata da alcune migliaia di indigeni.
Opera indispensabile per la crescita del ruolo commerciale di una Bolivia chiusa nel suo isolamento territoriale. Evo
Morales aveva ripetutamente invitato tutte le parti al dialogo su eventuali
correzioni di percorso, senza che l’invito venisse accolto. Continuavano invece
le barricate. Ora il progetto è stato sospeso in attesa che i portatori della
protesta si acconcino a discuterne con il governo e con le altre componenti sociali
che della mancanza di comunicazioni soffrono gli effetti.
Sia detto
con assoluto rispetto e solidarietà per le realtà native che, con più matura
coscienza politica, si battono nelle società neoliberiste, come nel Cile i Mapuche o in Honduras gli indios e gli
afrodiscendenti, insieme a tutti gli “sfruttati e oppressi” del loro paese.
5 commenti:
Caro Fulvio, un altro bello schiaffo - sonoro - alla nostra prosopopea eurocentrica, di eredi della retorica e tedofori della democrazia. Le lezioni, quando ci arrivano dai paesi "inferiori", quelli bisognosi - da sempre - delle "generose e filantropiche " sovvenzioni dei paesi più progrediti (...scusami, lo so che l'enunciare questi aggettivi è grottesco ma vanno ricordati, è così che ci siamo descritti per decenni e che abbiamo stigmatizzato loro, paesi buoni , al più , a fornir sguatteri o badanti, o bambini...), le lezioni, dicevo, sono ancora più umilianti.
E' periodo di elezioni, come ben rimarchi, Napolitano che va a fare il saggio della montagna da Obama seguitando nel pietoso teatrino antiberlusconiano che ha esattamente il risultato opposto. Ma l'hanno capito tutti come funziona! Non siamo mica ottuagenari rincoglioniti, eh!? Parlando male di Berlusconi gli fa addirittura propaganda, è davvero un manicomio indecoroso. Bersani che si genuflette alla assoluta incompetenza delle griffe “accademiche”, pusillanimi naturali asserviti alle più losche lobby finanziarie che lo stesso stinco di santo Nobel per la Pace Obama (il Nobel per la Pace se lo rimpallano i peggiori guerrafondai della storia, Obama che ha superato perfino Nixon in spregiudicato cinismo e l'Unione Europea che è un cenacolo di vipere tale che anche Cleopatra si periterebbe a varcar la soglia di quel palazzo di Bruxelles) come quel signore che ha tifato – ai tempi del crack argentino – per l'altro genio della politica economica Carlos Menem. Già proprio lui, Monti versione American Beauty, favorevole alle nozze gay, che per darsi una parvenza umana si esibisce col cagnetto sulle ginocchia e pare sempre di più l'automa del vecchio film di Alberto Sordi.
Che deprimente teatrino. Il gioco delle tre carte, il banco vince sempre, oppure stavolta salterà il banco?
Emilio
Oggi mentre ero in una sala d'aspetto ho preso in mano l'ultimo numero del National Geografic. Parlava della Libia. Pensavo si limitasse a parlare del suo patrimonio archeologico, notevole ma non molto conosciuto. Invece ha tirato fuori che "e' stata dominata per decenni da un dittatore, che ne avrebbe nascosto la sua storia" e addirittura affermava che "non sopportasse nemmeno la statua di Marco Aurelio". Insomma secondo questa rivista un periodo buio finalmente finito grazie alla "rivoluzione democratica" anche se c'e' ancora, secondo la rivista qualche sacca di "anarchia" facendo riferimento all'attentato di Bengasi dell'autunno scorso. Un cenno a decine di migliaia di "supporters" del vecchio regime stipati in carcere ma in attesa di processo, come fosse una cosa normale e logica conseguenza. Sembra che il nuovo governo debba ancora nominare i nuovi giudici. Immancabile la foto di una bambina di 10 12 anni bella e sorridente avvolta nella bandiera dei ratti. Tutto questo per far capire come anche in riviste di fama e specializzata in campi non politici la propaganda imperialista possa influenzare il pensiero corrente. A proposito non ci sono notizie dalla Libia. Qualcuno sa cosa stia veramente succedendo li?
Ancora un attentato terroristico a Damasco con decine di morti. Come al solito nessun giornale italiano mainstream usa la parola terrorismo, tanto abusata in altri casi, appiccicata anche ai manifestanti per la val di Susa. Al massimo parlano di "esplosione", mentre lo stesso Corriere della sera afferma che il Qatar ha stanziato per i ribelli altri 100 milioni. Ormai non hanno piu' nemmeno la forza di tentare ad attribuire le responsabiita' al governo siriano, e questi attentati vengono raccontati asetticamente, come fosse un evento naturale. Nel frattempo risulta che i droni USA dal loro inizio sembra abbiano "giustiziato" oltre 4000 persone. Facciamolo sapere alle associazioni umanitarie...
Chi sono io per negare in base a sofismi ideologici o ancor peggio dubbi di incapacità la possibilità a giovani ragazzi volenterosi di costruirsi il loro futuro.
Diamogli le carte e che se le giochino al meglio
non grafite matita copiativa VELENO Beppe GRILLETTO guerra anche chimica IRAN
comunicato URGE speranza Vs gentil diffusione GRAZIE !
B " H _
Illustrissimo Presidente della Repubblica I TAL YA On Prof Giorgio
Napolitano ,
il nostro Popolo è a rischio VELENO :
la matita copiativa NON grafite E' VELENO .
Il consiglio impartito da Beppe GRILLETTO , famigerato agente del regime IRAN
" leccate la matita prima di tracciare il segno sulle schede "
è parte della guerra anche chimica lanciata contro l' Occidente
dal regime di quelli che DEL IRAN , i deliranti Khomeinisti della Repubblica
Iran ,
sottoprovincia del regime della Siria ASSADANATA .
Tale consiglio è un tragico pesce d' Aprile .
Supplico LEI signor Presidente Napolitano : inviti chiunque abbia succhiata la
copiativa
a recarsi al più presto dal Medico per controlli e cure del caso .
In caso contrario le conseguenze dell' avvelenamento
potranno manifestarsi proprio intorno al 1° Aprile 2013 .
Grazie , ossequi .
Franco JAL Joseph Arturo LEVI MOLCA Movimento lotta contro antisemit ISM
MART 26 Febbrajo 2013 - 16 Adàr 5773 -
via Fratelli Fraschini 007 i 20142 Gratosoglio di Sotto Milan NO
FrancoLevi @ Tiscali.it | ph 0289301262 - 3492218113
|
http://it.groups.yahoo.com/group/Radicali_Sionisti_Trivoluzione_Artsenu_Era_Ora
|
a : Presidenza.Repubblica @ Quirinale.it
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