“Spunti
di riflessione”: Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti
PIANO
DI PACE, PIANO DI RESA,
O
PIANO DELLA DISPERAZIONE?
https://www.youtube.com/watch?v=0e-Ihl2BeO4
Nel video
inquadrature alternative alla vulgata sul Piano di Pace
L’etichetta
che invita a comprare è “Piano di pace”, la sostanza dentro all’involucro è “Piano di resa incondizionata”, il nocciolo
della proposta è “Piano della disperazione”.
Hamas
e le altre componenti della Resistenza hanno ovviamente dato disponibilità al
“Piano di Pace”. Non farlo avrebbe potuto far pensare che il loro è un cinico
accanimento sulla guerra a spese dell’olocausto in atto del loro popolo. E’ palese,
con Hamas, l’esistenza di una formazione bicefala, con una dirigenza, da anni a
Doha, incline a ascoltare con attenzione gli indirizzi dell’emiro che la
ospita, e i più autonomi successori di Hanijeh e Sinwar sul campo di battaglia
a Gaza (presenti con minore evidenza anche in Cisgiordania). Consapevoli,
questi ultimi, di essere il fattore determinante perchè il piano sia stato
innescato, se non dalla disperazione, da un’urgenza di sopravvivenza del
progetto sionista, con relative ripercussioni sul futuro del Grande Israele e,
più in là, della restaurazione colonialista nell’area e in generale.
Il
piano del trinomio Trump-Netanyahu-Blair arriva a poca distanza da quando,
secondo la delicata definizione euro-atlantica, Israele stava terminando il
“lavoro sporco” a Gaza e in giro per il Medioriente. Lavoro sporco che sarebbe
stato completato con “l’inferno” da scatenare nel caso di rifiuto. Un colpo
finale, tuttavia, che ha suscitato un inatteso contraccolpo dalle proporzioni
inattese, enormi.
Le operazioni
“Spade di Ferro”, prima, seguita da quella chiamata “Carri di Gedeone” (a fini
di adattamento biblico), si arenavano entrambe a Gaza City, con avanzamenti dell’IDF
verso sud e successive ritirate. Le perdite israeliane si avvicinavano ai 2000
caduti e a decine di migliaia di feriti, confermando lo scetticismo dei
riottosi comandi militari e dei servizi segreti, via via decapitati. Israele
doveva iniziare a leccarsi ferite sempre più profonde.
Breve
elenco. Lacerazione confessionale e politica del tessuto sociale, determinata
non solo dalla disponibilità di Netanyahu a sacrificare i prigionieri del 7
ottobre; crisi che si riverberava anche tra le file dell’esercito, con il
crescente rifiuto dei riservisti a farsi arruolare, con l’incremento delle
diserzioni, dei sucidi dei combattenti, dei casi di stress postraumatico (da
curare magari nelle Marche o in Sardegna); una popolazione che i droni e
missili yemeniti costringevano a continue corse nei bunker e che i missili
iraniani avevano rivelato preoccupantemente vulnerabile; il diseccarsi
dell’immigrazione a vantaggio di un flusso di ritorno nei paesi d’origine;
l’intiepidirsi, fino al congelamento, dei rapporti economici, commerciali e
accademici con il resto del mondo…
Tutto
questo a guardare dentro casa. Ma, gettando lo sguardo fuori, si percepiva la
nuvolaglia nera farsi nubifragio. La grandinata di riconoscimenti dello Stato
Palestinese, che vedevano una lista lunga quanto tre quarti dei paesi del
pianeta, 157 su 193 e che, pur carichi di ambiguità, erano imposti per tenere
il passo con la pressione delle proprie società. Facevano sì che Palestina
fosse diventata la parola politica più pronunciata al mondo. Cosa disdicevole
per chi si era adoperato per decenni a sopire, troncare, reprimere, seppellire,
l’intera questione. assistito dal collaborazionismo ANP.
Riconoscimenti
dettati da un’ola di indignazione mondiale per cosa si sta infliggendo a
milioni di civili innocenti di qualsiasi torto, che non fosse la rivendicazione
spesso solo della nuda vita. Mercenari che attirano bambini affamati con lo
sbrilluccichio di qualcosa da mangiare per poi seccarli con una fucilata. Credo
che questo sia stato, nell’oceano di orrori senza precedenti, il suono del gong
che ha fatto tremare le mura del tempio di Salomone. E che ha disperso nel
vento, come coriandoli alla fine della festa, le parole dette o scritte per
convincerci che l’unica cosa buona in Medioriente fosse Israele.
E
allora ecco l’uragano. Quello che ha fatto volare verso Gaza le vele delle
flottiglie, quello che ha fatto delle strade del mondo, più di tutte quelle
italiane, per una volta avanguardia, una forza incontenibile, un esercito in
marcia senza armi. Anzi, con le armi micidiali della coscienza, della
compassione, della rabbia e della solidarietà. Un esercito diventato capace di
elevare a universale la giustizia, il diritto, l’equità, che si tratti di
Palestina, in primis, ma ormai anche delle consanguinee vittime delle
diseguaglianze, dei decreti sicurezza, delle bugie a fine di prevaricazione e
predazione, dell’esclusione sociale o razziale.
Si
capisce perché il mostro bicefalo Trump-Netanyahu abbia dovuto ricorrere ai
ripari. Malamente, peraltro Illudendosi che la mega-falsificazione di quanto è
accaduto il 7 ottobre, giorno di “Hannibal”, cioè del fuoco israeliano
indistinto su nemico e amico, potesse far passare l’inversione
vittima-carnefice e tirarle dietro ancora una volta una complicità, attiva o
passiva, che però l’uragano nelle vele della flottiglia ha spazzato via per
sempre.
A
Sharm el Sheikh, una cosca di palazzinari pratici di costruire con mattoni
fatti di ossa e cementati col sangue, pensa di poter sistemare 15 milioni di
palestinesi, ognuno dei quali aveva, o ha scoperto ora, di essere portatore e
diffusore di una pandemia. Il virus si chiama libertà.

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