“Credo che tutta questa operazione è un trucco.
Baghdadi verrà ricreato con un nome diverso, un diverso individuo e l’Isis,
nella sua interezza, potrà essere riprodotto con un altro nome, ma con lo stesso pensiero e gli
stessi scopi. Il direttore di tutta la commedia è lo stesso, gli americani”.
(Bashar al Assad)
E, alla luce di Storia e cronaca, mi fido più di Assad che
di qualsiasi fonte occidentale.
https://twitter.com/i/status/1189650911888642055 video
del Pentagono su uccisione di Al Baghdadi, un bombardamento sul presunto
bunker. Punto.
Sesta morte di Al Baghdadi
Per prima cosa dobbiamo smettere di sghignazzare- peraltro
rabbiosamente – sull’ennesima eliminazione del turpe socio del noto fu senatore
McCain, Al Baghdadi, che piagnucola e si fa scoppiare senza che nessuno lo
possa riprendere, dato che tutto quello che gli Usa hanno fatto con i Chinook è
polverizzare un presunto bunker, mettere al confronto qualche lembo di qualcuno
con le mutande che un presunto curdo avrebbe sottratto a un presunto califfo e
disperdere ogni presunta prova scientifica e inoppugnabile in mare. Copia poco
fantasiosa di quanto questi illusionisti da baraccone dello Stato Profondo
avevano fatto con Osama bin Laden, o a Pearl Harbor, o nel Golfo del Tonchino,
o l’11 settembre, o con John e Robert Kennedy quando volevano smetterla in
Vietnam, o con Nixon, quando strinse la mano a Mao. Quanto, ma quanto ci hanno
fatto ridere. Con tanto di smorfia.
Oro o vermiculite (lega di finto oro )?
Veniamo a noi. Se, seguendo il mio rozzo, ma efficace
criterio di valutare, almeno approssimativamente, gli eventi alla luce di chi li
appoggia e chi li disapprova, direi che a Beirut, come in Iraq, è in atto una
bella rivoluzione colorata, finalizzata all’ennesimo regime change da
Stato Profondo Usa, agli ordini della cupola militar-finanziaria capitalista. A
prova adduco l’analisi dell’ISPI, quell’Istituto di studi di politica
internazionale che più atlanticista non si può e il cui direttore ci viene
presentato in ogni congiuntura come il guru delle verità geopolitiche. Il succo
del pippone ISPI – pifferaio “tecnico” seguito con devozione dal monopolarismo
mediatico, “il manifesto” in testa - è che il nemico della democrazia e del
cambiamento in Libano, e dunque dei bravi manifestanti, non sono altri che
Hezbollah e il loro alleato Michel Aoun, capo dello Stato e del partito dei Cristiani
Liberi, peraltro storicamente primo esempio di convivenza e alleanza tra
settori confessionali la cui separazione istituzionale il colonialismo francese
in partenza impose con il classico
“divide et impera” confessionale e geografico.
Le analoghe rivolte libanesi del 2015 e del 2005, come
queste e quelle di altre rivoluzioni colorate iconicamente rappresentate dalle
prime file di signorine, signore e giovanotti freschi di moda e di trucco, come
a Belgrado, Caracas, La Paz, Kiev, Hong Kong, poi spesso integrate da misteriosi
cecchini che sparano equamente su polizia e dimostranti, furono parimenti
apprezzate dall’ISPI, ma anche dalla finta sinistra talmudica e laica, con
mosca cocchiera l’ex-“Liberazione” e oggi “il manifesto”, Guido Caldiron.
Pubblicità non
occulta. Perdonate.
Metto le mani avanti. Mi picco di saperne un po’ di Libano,
frequentato fin dal 1967, Guerra dei Sei Giorni, quando ci passai espulso da
Israele per i miei pezzi al Paese Sera. Ma anche di Palestina, Egitto, Siria e
Iraq, di cui fino a oggi ho scritto pezzi, libri e girato documentari. Del
Libano credo di conoscere alcuni dei più significativi protagonisti: Walid
Jumblatt, capo dei Drusi e spesso kingmaker, i dirigenti palestinesi, le grandi
famiglie maronite fascistizzanti Chamoun, Gemayel, Geagea, Naim Kassem,
vicesegretario degli Hezbollah, gli stessi Hezbollah con i quali e con Stefano
Chiarini, il migliore giornalista mai incontrato, abbiamo girato il sud del
paese. E poi i militanti, i combattenti nella guerra civile 1975-1990, i
contadini, i palestinesi dei campi, Talal Salman, il grande direttore del
quotidiano di sinistra Al Safir, per il quale ho scritto anni fa. Lo dico
perché un po’ di antropologia e relativa morfologia mi è rimasta attaccata da
tante frequentazioni, per cui, quando vedo una folla, non mi è difficile
intuirne classe, motivazione e obiettivi.
Quando il pugno racchiude stelle e strisce
In Libano le prime file sono uguali a quelle che ho visto a
Belgrado, nei moti che portarono al rovesciamento di Milosevic, visto appresso
a Greta Thunberg, visto in tutte le operazioni di regime change Usa:
benvestiti, lisci e belli, curati e che, fino a quando non arrivano quei certi
cecchini (in Ucraina, Hama, Bengasi, Iraq, e Libano), appaiono personcine
educate da ammirare e vezzeggiare. Non fosse per un particolare: il pugno, il
pugno di Otpor, la camarilla delle manifestazioni popolari catturate e
pervertite, creata dalla Cia in Serbia e poi riemersa e adoperata in tutte le
rivoluzioni colorate. Pugno chiuso rubato furbescamente all’iconografia di
antiche, autentiche sollevazioni per libertà e giustizia. Proprio come l’ormai
abusatissima e dunque screditata “Bella Ciao” (contaminata perfino dalle ugole
dei parlamentari PD), e che ora echeggia tra certe folle libanesi, egiziane,
irachene.
Anche a Baghdad s’è visto il pugno, anche se lì la
morfologia umana è più varia e a prevalenza di poveri e arrabbiati, merito di
cui può vantarsi il mullah Moqtada al Sadr, passato dall’ obbedienza iraniana a
quella saudita, ambiguo Masaniello che si è assicurato un vasto seguito tra gli
strati sciti più deprivati. Il che non toglie nulla, né alle rivendicazioni dei
partecipanti, tanto giuste, quanto strumentalizzate, né all’identità della
manina spuria di chi s’è messo a capo di organizzazione e rifornimenti (del
resto di una qualità, quantità e omogeneità incompatibili con quanto si
definisce “protesta spontanea e senza capi”: tende, caschi, maschere antigas,
comunicazioni, logistica, fino agli slogan e alle pubblicazioni. E ai
finanziamenti di NED, Usaid, Soros).
“In Iraq come in Cile”?
Il trucco, cui quasi tutti i media ricorrono, per imporre
una grandiosa mistificazione dei sommovimenti in atto in diversi continenti, è
emblematicamente rappresentato dal “manifesto”, fidanzato di tutti i
mediorientali purché curdi, quando scrive “In Iraq come in Cile”.
Cosa deve metabolizzare il lettore di tale “questa e quella per me pari sono”,
cantato da tutti gli altri fakenewisti, nel sincronismo che li unisce quando si
tratta di far echeggiare la voce del padrone? Il Cile è al di là di ogni
discussione. Incombe, nella figura, nello squilibrio sociale, nella garrota
economica, nei carri armati in strada, con tale evidenza l’ombra del dittatore
Pinochet; è talmente enorme e traversale l’insurrezione, dai nativi Mapuche,
agli studenti, agli operai, ai professionisti e, soprattutto, talmente forte la
ripulsa degli yankee da parte del “pueblo unido jamas serà vencido”, che
perfino i più accaniti fan dei Chicago Boys e della Cia sono costretti a
scappellarsi, “chapeau”.
Ed è questa, per altri versi fortunata circostanza che gli
permette di infliggerci la Grande Mistificazione: visto che i manifestanti di
Santiago sono bravi e hanno ragione, come non può essere così anche per quelli,
ugualmente giovani, con tante donne, spontanei, senza capi, senza partiti, del
Cairo, di Baghdad, Beirut, Bassora, La Paz? Ed ecco che tutti, perfino gli
ultimi lettori del “manifesto”, i creduloni che ritengono i talk-show di “Fake
News” su cui costruire “Fake Thoughts” (falsi pensieri), condotti da
Gruber, Zoro, Floris, Formigli, Giletti e, ahimè, a volte anche del mio vecchio
collega e amico, Ranucci, credibili finestre sul mondo, sono convinti che da
Iraq, Libano, Egitto emani lo stesso profumo della Rivoluzione dei Garofani
portoghese (che LC, meglio di altri, raccontò in Italia).
Ribadisco: non v’è dubbio che nei ceti dirigenti di quei
paesi vi siano magagne a josa, che ci siano dominati in malessere e dominanti
al caviale. Come da noi, forse di meno, forse di più, come dappertutto. In
particolare dove le forze della globalizzazione, tanto benefiche verso la terra
quanto benevole verso i deprivati, hanno fatto piovere i propri principi di
democrazia, libertà, “law and order”, magari scortati da sanzioni,
truppe, forze speciali, crociati e cultori di mezzelune impiegate sui colli.
Il non detto delle “rivoluzioni”
Dunque le colpe ci sono: corruzione, inefficienza,
disuguaglianze, prepotenze, clientelismi, polizie brutali. Insomma, un bel po’
di pidismo, renzismo, andreottismo, leghismo. E da mo’ che ne soffriamo, loro e
noi. Ma per scatenare oggi quelle proteste, far riemergere quel pugno chiuso,
c’è qualcosa di non detto, come sempre. Qualcosa che non piace proprio, non
tanto alla piazza, che si batte per i cazzi suoi, quanto a chi, lontano e in
alto, non gradisce certi comportamenti di certi governi.
Vediamo. Per due volte il Libano ha ricacciato a casa sua
chi lo aveva invaso, gli aveva inflitto Sabra e Chatila, ne viola da decenni la
sovranità, lo ha messo in ginocchio a forza di missili, lo ha avvelenato con
armi proibite. Ancora mi batte il cuore quando, nel 2006, a Bint Jbeil, rasa al
suolo quanto Beirut e tutte le altre città libanesi, vidi le truppe israeliane
scappare come lepri davanti agli sgarrupati guerriglieri Hezbollah, per la
seconda volta vittoriosi. Il Libano era in macerie. Gli Hezbollah furono acclamati
da tutto il popolo liberatori della patria e ne furono consacrati difensori in
perpetuo. E l’Iran maledetto aveva trovato sul Mediterraneo un alleato forte e
affidabile. Ne era nata un’unità nazionale con tutti i movimenti
rappresentativi delle varie comunità e confessioni al governo, compresi gli
Hezbollah con tre ministeri, e un presidente, il general Michel Aoun, cristiano
ma loro alleato. E poi, quegli Hezbollah, non sono andati a combattere e
vincere anche in Siria e Iraq? Intollerabile carcinoma nel Medioriente arabo da
frantumare.
Saad Hariri, uomo dei sauditi e, dunque, degli Usa, si
dimette a seguito, dice, delle proteste. I manifestanti puliti e civili si
scontrano con omaccioni che si fanno passare per Hezbollah e Amal, l’altro
partito scita. Saad, figlio del più grande e ricco speculatore libanese, ucciso
in un attentato, chiede ad Aoun un esecutivo di tecnici: via dalle scatole gli
Hezbollah. Libano aperto alle vendette israeliane. Ciò che deve crollare è
l’accordo che ha posto fine alla guerra civile: l’unità nazionale di segno
patriottico. Chi ne godrebbe?
A Baghdad si rialza la cresta
Poi le colpe degli iracheni, in primis delle Unità di
Mobilitazione Popolare che, assieme al ricostituito esercito iracheno, hanno
inflitto all’Isis la sconfitta più cocente, ricuperando per intero il
territorio nazionale (tranne una striscia occupata dal solito Erdogan) e
costringendo le mafie curde di Barzani e Talabani alla mera autonomia
regionale. Il governo di Abdul Mahdi, meno prono ai voleri dei tuttora
occupanti Usa, non si è opposto a che il parlamento e le milizie popolari denunciassero
il sostegno dato dagli Usa all’Isis durante tutto il conflitto e alle recenti
incursioni israeliane e chiedessero alle truppe Usa, evacuate dalla Siria e
entrate in Iraq, di togliere il disturbo entro 30 giorni.
Chi ha ridotto l’Iraq in quello stato?
Gli apologeti nostrani dei rivoltosi, in effetti duramente
repressi dopo aver dato alle fiamme edifici e personale governativo, denunciano
i black out elettrici, la carenza di acqua potabile, lo sfascio delle
infrastrutture, gli alti prezzi. Non si sognano neanche di accennare a due
guerre distruttive, inframmezzate da bombardamenti clintoniani ogni quattro
giorni per sei anni, al petrolio, che dovrebbe fornire l’energia e permettere
la ricostruzione, per intero in mano ai grossi petrolieri anglosassoni insieme
ai suoi proventi, l’acqua del Tigri e dell’Eufrate ridotti a fiumiciattoli
dalle nuove, abusive, dighe turche. E se il bluff Moqtada, raffigurato come
colui il cui seguito resistette agli occupanti Usa e Nato, mentre contro questi
non ha mai sparato un colpo (la resistenza era tutta saddamita e Baath), ora
chiede le dimissioni del governo di cui faceva parte e scende in piazza con i
manifestanti, vuol dire che al gioco partecipano sauditi, americani e
israeliani.
Del Cairo e di Al Sisi mette poco conto parlare. Bastano
Amnesty International, HRW, Avaaz, gli atlantisti all’orgasmo del “manifesto”,
“Fatto Quotidiano” e tutti gli altri pappagallini a farci capire di chi è
nemico al Sisi e di chi sono amici i Fratelli musulmani. La loro descrizione
dell’Egitto del presidente che si è avvicinato alla Russia, sostiene Haftar in
Libia, ha pacificato il paese, ha raddoppiato il Canale, erige una nuova
capitale per decongestionare il Cairo, ha costruito più case popolari di
qualsiasi predecessore, deve affrontare ogni giorno un terrorismo jihadista
sanguinario quanto e più di quello in Siria (e nessuno ne parla), fa della
Giudecca di Dante un parco giochi.
Toccherebbe andare a vedere con i propri occhi. I dossier
di Amnesty meritano la sorte dei diari di Hitler. Strillano che chiunque parli
contro il “regime” finisce incarcerato, torturato e ucciso. Come Regeni. Come
la grande operazione Regeni. Poi, per sostanziare l’affermazione citano
“giornali d’opposizione”, “attivisti dei diritti civili”, “Ong”, tutti vivi e
vegeti e parlanti. Strano.
E ora vediamo come la mistificazione dei destri-sinistri e
destri-destri si estenda all’America Latina. Anche di questa, permettete,
qualcosina ne so, e non solo sul piano fisionomico.
Cile e Argentina
Quanto al Cile, con codesti impresentabili continuisti del
macello sociale nel paese del miracolo economico latinamericano, nessuno ha
potuto sottrarsi, salvo qualche testa di Bolton, McCain, Ong, setta evangelica,
o ISPI, al riconoscimento che qui si tratta della rivoluzione di un popolo
contro il pinochettismo. Una “democratura” confermata nella pratica e nella
Costituzione anche negli anni dei fasulloni della democrazia riconquistata.
Personaggi sbaciucchiati dalla sinistra Deep State, alla “manifesto”, tipo
Azocar, Escobar, la fellona Bachelet, corsa in Venezuela a dar mano forte al
guappo amerikano Guaidò e alle calunnie di Pompeo. Cile nel quale, cosa non
riferita dai mass media e non vista né al Cairo, né a Baghdad, né a Beirut, alle
spalle del caudillo da abbattere, i manifestanti prendono univocamente per
bersaglio i gringos.
Così in Argentina, dove vedo ripresentarsi, grazie a 4 anni
di neoliberismo sotto ferula FMI (40 miliardi di dollari da trasformare nel
debito di 45 milioni di argentini (escluso lo
0,01 % che ha incamerato il prestito), l’identica situazione lasciata
dall’altro ladrone, Carlos Menem. Situazione aberrante che ho filmato nel 2002,
attraversando un paese dove il 60% della gente, ridotta alla fame, veniva
tenuta in vita dalle mense e dagli ambulatori delle organizzazioni popolari di
sinistra. I soliti media, sempre col gufo “manifesto” in testa, masticano amaro.
Tanto, che costretti a riconoscere una sollevazione sacrosanta contro
l’ennesimo restauratore amerikano del “cortile di casa”, si rifugiano negli
acidi sospetti su una Cristina Kirchner, già protagonista col marito Nestor
della rinascita argentina. Cristina farebbe la vicepresidente dell’altro
peronista Fernandez (più moderato, nella speranza dei media) per garantirsi
l’impunità da una serie di inchieste montatele contro da una magistratura che fa
il paio con la brasiliana dell’incarceratore di Lula, il procuratore Sergio
Moro, poi premiato da Bolsonmaro con il ministero della…Giustizia.
In Bolivia, dove limpidamente ha vinto per
la quarta volta Evo Morales, l’uomo che ha estromesso l’FMI, registrato un
miglioramento delle condizioni di vita e della macro e micro-economia senza
precedenti nella storia del paese, siamo alle solite: contestazione del
risultato e accusa di brogli. La rivolta, del tutto analoga negli obiettivi,
nei protagonisti e nelle manipolazioni di quelle di Libano e Iraq, stesso
padrino, stesse Ong, parte come altre volte da Santa Cruz, feudo e regione di
irriducibili latifondisti e covo dei revanscisti dell’alta borghesia, oggi
guidata dallo sconfitto Carlos Mesa. Morales, in un soprassalto di generosità,
ha invitato l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), a verificare i
risultati. Visto la natura di zerbino yankee di questa organizzazione e del suo
segretario, Luis Almagro, ha assunto un notevole rischio.
Ecuador: la vittoria tradita
Un discorso a parte merita l’Ecuador dove
tutti, chi inconsapevole, chi da sorcio nel formaggio, festeggiano l’accordo
tra il presidente Lenin Moreno, traditore e poi persecutore dell’ex-presidente
Rafael Correa, che, in cambio del solito prestito miliardario FMI, s’era
venduto il paese e Assange agli Stati Uniti. Correa aveva fatto entrare il paese nell’ALBA, la
coalizione antimperialista messa in piedi da Chavez, e adottato misure contro
l’endemica povertà, in difesa dell’ambiente. Aveva anche lui cacciato il FMI. Sostenuto
dalla Rivolucion Ciudadana, aveva risollevato il suo popolo dalle
disastrose condizioni in cui l’aveva lasciato tutta una serie di fantocci di
Washington.
Ho avuto la fortuna di passare con
telecamera e taccuino dalle parti di Ecuador e Bolivia, proprio nella fase del
passaggio dall’abiezione colonialista a una liberazione-emancipazione conquistata
da enormi insurrezioni popolari e da due nuovi leasder. A Quito avevo
intervistato Luis Macas, segretario della CONAIE, il coordinamento delle
associazioni indigene e ne avevo notato la totale estraneità alla lotta e ai
suoi obhiettivi anticapitalistici. Fatto da collegarsi al sostegno della Conaie
al presidente Lucio Gutierrez, indigeno anche lui ma filo-americano e
dollarizzatore del paese, abbattuto dall’insurrezione.
Indigeni alla vermiculite
Ebbene, oggi la stessa Conaie, stavolta
protagonista delle rivolta, ma che aveva tentato di espellerne il movimento di
Correa, Alianza Pais, ha concluso con Moreno un accordo nettamente a ribasso,
confermandolo a una presidenza che le masse avevano voluto ritirata, rimandando
a casa, nelle lontane province amazzoniche, le tribù che si erano mobilitate. Contro
la promessa, si badi bene: promessa, di ritirare il paquetazo che aveva
innescato la lotta, un insieme di tagli dei sussidi e di aumento dei prezzi,
soprattutto del combustibile, la Conaie ha accettato che tutto rimanesse
com’era: il caudillo Moreno, il sistema neoliberista, un’economia estrattivista
al servizio delle multinazionali Usa. Un nuovo tradimento.
Non sempre le organizzazioni indigene, si veda
Bolivia e, appunto, Ecuador, ma anche gli zapatisti dell’ex Marcos in Chiapas,
sono esenti da ambiguità e corporativismi etnici, a dispetto degli indigenisti
nostrani che, chiunque sia o qualunque cosa faccia l’indigeno, spesso in
combutta con interessate Ong, si schierano senza se e senza ma dalla sua parte.
Come con i migranti, fossero anche la mafia nigeriana.
Concludendo, la fattucchiera che, da capa del
tritacarne FMI, ha ridotto l’America Latina nelle condizioni viste, salvo
Bolivia e Venezuela dalle quali era stata cacciata, ce l’abbiamo oggi alla
testa della grattugia BCE. Volessero gli dei che anche da noi cominciasse a
spirare il vento che oggi gonfia le vele dell’America Latina.
Nessun commento:
Posta un commento