domenica 10 novembre 2019

40 ANNI DAL MURO, 40 ANNI DI ILVA----- Gorbaciov per 100 milioni dice sì alla Nato. Per quanto il governo dice sì all’ILVA?




Qui si parla di muri e fumi che si abbattono sui viventi. Dei fumi (ILVA) ci occupiamo dopo in fondo, con un contributo, al solito problematico e illuminante, di Mario Monforte, al quale precedono alcune mie osservazioni. Partiamo dai muri, crollati.

Ondate d’odio
Scampati a malapena vivi, ma ancora abbastanza lucidi, in grado di distinguere tra verità e fake news, realtà e finzione, tra odio e lotta dei subalterni; scampati per un pelo alle ultime ondate di odio rovesciateci addosso da certe commissioni parlamentari, a certi sradicatori di popoli, certe ragazzine che incolpano dello sfascio del clima chiunque abbia più di trent’anni, certi euroboia, certi dirittoumanisti che non vedono l’ora di farci scannare con i russi e i cinesi e, soprattutto, scampati allo tsunami di odio per i comunisti, recentemente carburato dagli eunuchi nell’harem satrapesco dell’Europarlamento… Mi sono fatto prendere la mano. Riprendo.


Scampati vivi a questi e altri diluvi d’odio, come al solito scrosciati con particolare dovizia dal giornale New Age-Deep State del gruppo che, fin dal 1969, in odio ai russi si separò dalla casa madre (PCI), nell’anniversario di quando tutto questo iniziò, Berlino, novembre 1989, abbiamo celebrato, che dico, ricordato, anzi, deprecato, quella data e quell’evento a San Lorenzo di Roma. Locale angusto per contenere quella gran folla, ma allargato oltre ogni orizzonte da una donna sulla parete, con un’enorme bandiera rossa e ulteriormente nobilitato da Vladimiro Giacchè. Laureato in filosofia e prestigioso economista, alle miserabilia della vulgata reazionaria di destra e “sinistra” sulla “riunificazione” tedesca, ha risposto con una slavina di dati e analisi da sotterrare tutta intera la torma dei celebranti dell’uccisione della DDR, Deutsche Demokratische Republik, del suo mandante Usa, del suo sicario, Kohl, e del suo palo, Gorbaciov. I due libri che ci ha illustrato la dicono tutta: il suo “Anschluss-Annessione” (Ed. Diarkos) e “La Perestroika e la fine della DDR” (Ed. Mimesi) di Hans Modrow, dirigente SED (Partito dell’Unità Socialista) e ultimo premier della DDR.

Di Vladimiro Giacchè su euro, Grecia, migranti e affini, potete trovare una bellissima intervista nel mio docufilm “O la Troika o la vita”, mentre una sua prefazione, che vale tutto il libro, mi è stata regalata per il libro “Un Sessantotto lungo una vita”.



Colonizzati e spogliati dai fratelli
Se vi capita l’occasione di confrontarvi con coloro che blaterano di una “caduta del muro” che avrebbe fatto esultare gli insqualliditi cittadini della DDR, agonizzanti sotto il regime Stasi – un servizio di sicurezza che sta a quelli occidentali come i vigili urbani del mio borgo stanno ai Navy Seals e ai sistemi occidentali di controllo biopolitico - e inaugurato l’era dell’uguaglianza tra tedeschi e di pace e libertà nel mondo, prendete una balestra e sparategli questi dati.

Unificazione o  annessione?
Al tempo del crollo di un muro che era stato eretto per impedire che spie, provocatori, infiltrati stillassero veleni capitalisti e imperialisti nella Germania Orientale (tipo come succede oggi più che mai in 193 pasi del mondo), l’85% dei tedeschi dell’Est affermava la volontà di restare indipendente. Le riforme, non verso il modello di Bonn, ma per un socialismo democratico, di grandi figure come Hans Modrow e Christa Wolf, vantavano  il sostegno della maggioranza della popolazione. Non era difficile intravvedere cosa sarebbe successo nel fervore di destre e sinistre già allora unite: una Germania socialista in tutte le sue componenti sociali ed economiche, privata della sua visione e del suo ruolo geopolitici, depredata dei beni che, essendo dello Stato, erano dei cittadini. Così fu. E anche peggio.

Il muro cadde in testa non solo ai cittadini dell’Est, ma a mezzo mondo. L’era di pace si tramutò, con Bush, Clinton, l’altro Bush, Obama, in era di guerre e terrorismi, senza limiti di spazio e tempo, tutti della stessa matrice. Il potenziale industriale, una specie di mega-IRI, fu svenduto, saccheggiato, o spianato. I nostri Draghi, Andreatta, Prodi, Amato, Ciampi, impararono la lezione e procedettero in maniera analoga nel segno speculativo, stavolta, di George Soros, già allora messaggero degli dei di Wall Street. Ci ha pensato un ente unilateralmente gestito da Bonn, la Treuhand Anstalt, per fare la parte del rottweiler che spolpa l’osso, una roba a metà tra un mini-FMI e la camorra di Cutolo. Suo compito realizzato fu di passare ai grossi gruppi tedeschi quanto valeva e poteva far concorrenza e, il resto, a farabutti dello stampo dei nostri furbetti del quarterino, però all’ennesima potenza.
 I terreni su cui sorgevano le fabbriche erano dello Stato, ma furono ceduti ai manager degli stabilimenti che se li vendettero e al posto di una fabbrica di scarpe, con mille operai, sorse magari un centro commerciale, o un hotel di lusso, con quaranta addetti.  Disoccupazione di massa, emigrazione di massa. Cambio da marco a marco, dall’illusorio 1 a 1 dei primi giorni, a 1 a 350. Un popolo cui i pochi marchi ovest iniziali avevano bucato le tasche, lasciandole vuote per decenni.

L’Opera Magna di Gorbaciov
 Il mandante e il palo

Sei mesi dopo il muro, la produzione industriale era ridotta del 35%, dal 1989 al 1991 il PIL, ora misurato alla capitalista, si ridusse del 45%. Ottenuto dal cancelliere Kohl un prestito di 100 milioni all’URSS in sfacelo, Gorbaciov diede via libera all’ingresso della Germania unita nella Nato. Di conseguenza, non si sognò di chiedere ciò che la Germania doveva all’Unione Sovietica: 500 miliardi di riparazioni per i danni dell’invasione. Giacchè si chiede se fosse semplicemente scemo, o altro. Noi non abbiamo dubbi: tutto il seguito e la scomposta passione del “manifesto”, e di altri tentacoli e foruncoli dello Stato guerrafondaio USA, per il demolitore dell’URSS e del suo alleato dalla migliore riuscita, avvalorano “l’altro”.

Alexanderplatz prima e dopo

A Berlino, giorni prima
Poche settimane prima della fine del muro, attraversai la DDR con mio figlio Oliviero. Naturalmente ci fermammo in un albergo di Berlino Est, sull’Alexanderplatz, con in fondo le solenni statue di Marx ed Engels, addolcite dagli alberi che le ombreggiavano, da gente che ci si fotografava e bambini che vi si arrampicavano. Era quanto restava, dopo la guerra, della meravigliosa Berlino del barocco, del neoclassico, del guglielmino, in parte ricostruiti. Piena di caldi locali e localini, frequentati da poeti, musicisti, studenti, spumeggianti di discussioni. Niente boutique di stilisti, niente “wellness”, quella roba che sostituisce il sano vivere. Fighettume zero. La riunificazione travolse tutto questo, ci diede la modernità urbanistico-architettonica che vedete nel confronto delle immagini.

E’ lecito passare dall’antico al nuovo. Ma senza rompere, insultare. Qui siamo passati al kitsch e a una volgare pacchianeria da Disneyland, alla paccottiglia urbanistica che scimmiotta una Times Square, mille volte più vera, e insulta la storia di una città e della sua cittadinanza. Ne cancella l’anima. Al generale degrado, alla diseducazione urbanistica, al verticalismo da parvenu ha dato una mano anche Renzo Piano. C’è da stupirsi se, oggi, nella ex-DDR avanzano i movimenti politici che maggiormente ce l’hanno con questa Germania? Costruita sul più spietato colonialismo inflitto a una parte della propria popolazione. Quella fatta prima a pezzi dai bombardamenti di Churchill e Roosevelt, poi privata di un terzo dalla Polonia e infine ridotta in ginocchio dagli sprezzanti “fratelli” democratici all’ovest.

Potsdamer Platz, prima e dopo


Un crollo che ha liberato i cavalieri dell’Apocalisse
Ho parlato di dati, quelli inconfutabili fornitici e, in parte, rivelatici, da Vladimiro Giacchè. Ne aggiungo uno, neanche tanto mio, poiché semplicemente lapalissiano. Fatto cadere il muro, a forza di trucchi, bugie, promesse, illusioni, tradimenti, corruzione, quello che è caduto è anche un muro infinitamente più alto, lungo, robusto, che nel cuore e nella mente di gran parte dell’umanità, la difendeva dalla retrocessione a tempi, scintillanti per pochi, bui per molti, da cui il lavoro, l’intelligenza, il coraggio e poi il sangue di milioni di uomini e donne, l’avevano riscattata. E questo a prescindere dalla qualità che possa aver avuto, o non avuto, l’URSS di Stalin o Brezhnev.


Sopra le macerie di quel muro, e di quest’altro muro nostro, sono passati i quattro cavalieri dell’apocalisse, quelli dell’odio ontologico che danno dell’odiatore a chi resiste: capitalismo, colonialismo, imperialismo, scienza e tecnologia anti-vita, le armate della controrivoluzione. L’Europa, a tirannia euro-carolingia, fondata sul totalitarismo sorveglianza-punizione, punta a ricuperare i suoi fasti colonial-stragisti e, a forza di odii e discriminazioni per chi non si sottopone al pensiero unico politicamente corretto, consegna all’Africa depredata il Sudeuropa da svuotare di sé. Oggi costoro, danzando sulle rovine della parte migliore della Germania, festeggiano. Festeggiano anche molti berlinesi qualunque. Chissà se sanno cosa festeggiano.

 ILVA, quod non fecerunt Sacra Corona Unita…


Alcune mie osservazioni molto rozze sull’Ilva, qualche ricordo e poi estratti dall’analisi più approfondita di Monforte, anche più realistica – nella fase attuale - dell’idea mia che, però, ritengo irrinunciabile sul piano morale, sanitario, urbanistico, civile, e in vista di un futuro che le innovazioni buone ci prospettano diverso.

Vivi a Tamburi e poi muori

Nel documentario “L’Italia al tempo della peste” racconto Taranto al tempo dell’Ilva, gli incontri, le vittime, i combattenti, i criminali, gli indifferenti. Madri, padri, bambini, medici, militanti, Alessandro Marescotti, l’attivista e scienziato di Peacelink che, più di ogni altro, con passione e competenza, da decenni scrive, parla, documenta, denuncia, grida. Pochi lo ascoltano. Nessuno di coloro che hanno preso le decisioni. Semmai i giudici che ce l’hanno messa tutta a bloccare la strage, potere indipendente dello Stato, sabotato dall’altro potere. Marescotti mi ha accompagnato per Tamburi, il quartiere dove le strade sono frequentate solo da polvere nera, residui di metalli pesanti, ossidi. Dove a lottare contro le polveri di carbone ci sono solo i murales. Mi ha indicato i quattro o cinque pezzetti di prato, tossici, recintati perché i bambini non si azzardino a giocarci a pallone. Non si gioca per le strade di Tamburi. Si gioca poco per le strade di tutta la città, visto che all’Ilva si aggiungono cementifici, raffinerie, depositi di carburanti, le navi Usa.


Poi sono salito nelle case dove, lungo la tromba delle scale, panni appesi ad asciugare provavano a ridurre al minimo l’anneramento. Negli appartamenti le donne, tutte con qualche parente ammalato o morto di cancro e altre patologie da Ilva, mi facevano strisciare il dito lungo le pareti per ritirarlo nero. E non era neanche una di quelle giornate del vento da nord o nord-ovest, che il nero te lo spara fin nelle viscere, quando le scuole chiudono per far vivere un altro po’ i bambini. Donne che mi chiedevano, mortificate, di non riprenderle perché, hai visto mai, qualcuno in fabbrica potrebbe prendersela col marito a causa di qualche verità, qualche pianto. Poi, a faccia voltata, ululavano.


Basta!

Rientrando, con alcuni attivisti dell’organizzazione “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, quelli che da decenni chiedono la chiusura della “più grande acciaieria d’Europa” (così qualcuno, a petto in fuori, glorifica il killer), ho deciso che non la si può pensare che come loro. Il mostro va ucciso, punto. L’hanno tenuto in vita i complici, da Vendola a Renzi e a tutti i governi fino ad oggi, con scudi e Salva-Ilva di un cinismo complice, pari a quello di chi impicca o crocifigge prigionieri siriani, o bombarda matrimoni afghani, o stupra manifestanti a Santiago. Poi ci sono coloro che pensano che senza l’industria pesante, senza acciaio, in crisi ovunque e ovunque nemico dell’ambiente e dei viventi, non si va avanti, resta senza lavoro una comunità. Forse hanno ragione oggi, con questo modello di sviluppo, dell’1% straricco e del resto che si dibatte tra fame e veleni. Sicuramente non domani, visto che si parla di riconversione ecologica. Perché alimentare i forni col gas, anziché col carbone e la truffaldina e letale truffa che vuole l’Italia hub del gas (purchè non russo), è come i pannicelli caldi che i Cinquestelle applicano al bubbone PD.


Taranto ha pagato. Ora basta. Hanno pagato tutti i luoghi sui quali, con virulento odio cristiano-capitalista per la bellezza e per chi l’aveva coltivata e ne godeva, si è abbattuto il fuoco velenoso del drago, cancellando civiltà antiche, vite di ogni specie, incanti prodotti in faticosi secoli dalla Natura, da Trapani a Capo Passero in mare, da Siracusa ad Augusta, a Cornigliano, fiore avvizzito della Riviera di Ponente, alle spalle di Venezia che sulla faccia viene schiaffeggiata da Grandi Navi e Mose, in tutto lo Ionio e l’Adriatico, vietato a Ulisse e ai suoi marinai. E, per sempre, a Omero, che sarebbe davvero il male assoluto. Sono scomparsi gli ulivi, la civiltà che alitava tra i suoi rami e i suoi uomini, si sono mangiati il mare e le coste. A forza di industrie pesanti, le potenze si sono gonfiate come rane. Ora scoppiano. Ma scoppiano su cimiteri zeppi di gente che è morta di lavoro sotto quella pioggia di rane, o non ce l’ha fatta neanche ad arrivare al lavoro, spesso neppure alla scuola. Anche per un solo bambino divorato dal mostro, l’Ilva deve scomparire come tale. Non mi si dica che la settima potenza del mondo non saprebbe sistemare dieci, quindici, ventimila lavoratori. Già solo a riaggiustare la Puglia. E poi l’Italia.

Qualcuno ghignerà: “Bravo, la decrescita felice”… Non lo so. Ma l’ILVA ha da morì. Questo sì.   


Sullaffaire acciaieria di Taranto … di Mario Monforte
…..E allora? La promessa dei “grillini” in campagna elettorale del ’18 era di chiudere, sic et simpliciter, lo stabilimento, assumendo cosí la piú che comprensibile rivolta contro inquinamento-malattie-decessi (e ricevendo il 47% dei consensi in città). Però il “nodo” sopra delineato dell’occupazione e delle sorti per Taranto in particolare, e dell’importanza dell’acciaieria per l’Italia in generale, rimane (certo, lo stabilimento è fatto male e situato peggio fin dall’inizio, etc.: tuttavia, c’è ed è lí). E le soluzioni “grillesche” come l’“alternativa” dell’«allevamento di cozze pelose» e l’uso dello stabilimento come «archeologia industriale» per turisti e per scalatori (delle ciminiere), se si vuole essere comprensivi, non costituiscono molto piú che battute di spirito - che adesso fanno anche poco ridere. Da parte sua, il governo Conte-bis ha dimostrato, e dimostra, sempre sic et simpliciter - senza stare qui a fare troppi discorsi, inutili, e “distinguo”, fuorvianti -, e ancora se si vuole essere comprensivi, la sua incapacità, la sua inettitudine, la sua dannosità.

Che si dovrebbe fare? Ma quanto andava fatto da tempo: assumere a carico statale il risanamento ambientale (dello stabilimento e dell’intera area) e statalizzare l’acciaieria, onde preservare non soltanto le condizioni dei lavoratori e impiegati (diretti e indiretti) nonché l’economia della città e dell’area, ma anche per mantenere, e anzi supportare, la nostra produzione di acciaio. E questo dovrebbe apparire piuttosto evidente. Solo che … solo che ciò significa sia andare contro il liberalismo economico scatenato, e imperativo (per il nostro paese …) dell’Ue (è quello che viene chiamato con il nomignolo storpiato, e riduttivo, di «neoliberismo»), sia dover ricorrere almeno all’uso (keynesiano) della «spesa in deficit» (per investimenti produttivi): ossia sostenere la “bestia nera” dell’Ue, e scontrarsi con l’Ue - contrastando le immancabili interne “voci” (stolte) ostili: “oddio! Interventismo pubblico! Sovranismo!”. Ma il governo Conte-bis è la “centrale” di queste “voci”, ed è precisamente il “pupillo” e il “commesso” dell’Ue …..

1 commento:

Perla ha detto...

Quinto Orazio Flacco così descriveva la terra miracolosa di Taras
«E se il destino avverso mi terrà lontano,
allora cercherò le dolci acque del Galeso
caro alle pecore avvolte nelle pelli,
e gli ubertosi campi che un dì furono di Falanto lo Spartano.
Quell'angolo di mondo più d'ogni altro m'allieta,
là dove i mieli a gara con quelli del monte Imetto fanno
e le olive quelle della virente Venafro eguagliano;
dove Giove primavere regala, lunghe, e tiepidi inverni,
e dove Aulone, caro pure a Bacco che tutto feconda,
il liquor d'uva dei vitigni di Falerno non invidia affatto.»

Oggi le donne si incatenano a pochi passi dal ponte Girevole, nel cuore di Taranto. Con cartelli e scritte che richiamano i dati su malattie e morti nella città, chiedendo la chiusura delle fonti inquinanti e degli impianti dell’acciaieria ex Ilva. “+ 54 per cento di incidenza di tumori in età da 0 a 14 anni, + 21 per cento di mortalità infantile oltre la media regionale, + 20 per cento eccesso di mortalità nel primo anno di vita”.
In quanto a Berlino hanno abbattuto un (relativamente piccolo) muro ma ne hanno costruito uno mille volte più grande tra l’1% dei ricchi e il restante 99% al loro servizio. Questo è il vero muro da abbattere.
Pier